La Confindustria urla allo scandalo, Beppe Grillo alla fregatura. L’ipotesi del Governo di dare il TFR in busta paga va invece in una direzione importante, ribadisce il diritto di ognuno di decidere cosa fare dei propri soldi.
Il TFR, trattamento di fine rapporto, è una parte di stipendio del lavoratore, accantonata e conferita al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Ad oggi un lavoratore dipendente di una grande azienda può scegliere se destinare il proprio TFR a un fondo di previdenza complementare o all’INPS. Per la maggioranza delle imprese italiane invece, che hanno meno di 50 dipendenti, la gestione del TFR avviene all’interno della stessa impresa.
Nelle ultime settimane è tornata in auge l’ipotesi di conferire in busta paga il TFR (una parte di esso) anziché accantonarlo con l’obiettivo di aumentare il reddito disponibile e rilanciare i consumi. La proposta ha visto la netta opposizione dei rappresentanti degli imprenditori così come di alcuni partiti politici. In diversi criticano il fatto che il TFR in busta paga sia un trasferimento intertemporale di risorse comunque in possesso del lavoratore e che si rischi di erodere la già difficile accumulazione di risparmio. L’accantonamento forzato del TFR risponde però a una logica di Stato paternalistico e calpesta la libertà del singolo lavoratore di decidere come impiegare il proprio stipendio.
Chi sostiene la necessità di impedire l’accesso del lavoratore al proprio TFR prima della fine del rapporto di lavoro, sottolinea l’importanza di forzare un accantonamento di risorse da investire per affiancare la sempre più misera pensione o comunque per far fronte a difficoltà più avanti negli anni. In quest’ottica, di TFR come forma di investimento del lavoratore sul proprio futuro, l’impostazione attuale, per cui nella maggior parte dei casi il TFR rimane in azienda, presenta almeno due gravi difetti:
- C’è una malsana concentrazione del rischio dell’investimento. Non solo il lavoratore investe in una sola azienda, esponendo al rischio di fallimento della stessa il proprio capitale (e in pratica quello della collettività in quanto l’INPS è garante in caso di insolvenza), ma inoltre investe nella stessa impresa da cui dipende il proprio posto di lavoro e quindi il reddito. Decisamente l’opposto rispetto a un investimento diversificato.
- Il TFR si rivaluta a un tasso estremamente contenuto, pari all’1,5% più una porzione (i tre quarti) dell’inflazione corrente. Confrontiamo il tasso reale, che è nel migliore dei casi pari all’1,5% e decrescere al crescere dell’inflazione, con quello pagato da un BTp Italia, un titolo di Stato italiano legato allo stesso indice dell’inflazione. Il BTp Italia (con scadenza aprile 2020) paga un tasso reale sempre pari all’1,3%. Se l’inflazione italiana aumentasse di qualche decimo di punto, fino a 0,8%, i due tassi reali andrebbero a coincidere mentre oltre questo tasso sarebbe favorevole il BTp Italia. Dobbiamo inoltre constatare che i due sono accomunati solo dal legame all’inflazione ma sono più che mai diversi: uno, il BTp Italia è un prestito a uno Stato e, nel caso considerato, della durata di meno di 6 anni. Il TFR è invece in molti casi un prestito all’azienda e con un orizzonte temporale facilmente molto più lungo. Non esattamente un rischio ben remunerato.
L’idea di trattenere forzatamente il TFR è frutto di un’idea di Stato decisamente paternalistica. Perché c’è la presunzione di ritenere che l’azienda o l’INPS facciano delle risorse del lavoratore un uso migliore di rispetto al lavoratore stesso? Se questi ricevesse il TFR in busta paga, potrebbe scegliere liberamente se e dove investirlo o quanto e in che cosa consumarlo. Se decidesse di investirlo potrebbe facilmente fare meglio dell’attuale gestione del TFR in azienda, sotto il profilo di rischio e rendimento. Allo stesso modo però potrebbe scegliere di consumarne una parte o anche tutto per far fronte a difficoltà economiche momentanee o per saldare debiti.
Confindustria è subito corsa ai ripari, non tanto perché abbia a cuore il futuro benessere dei lavoratori, ma perché il TFR rappresenta un finanziamento a bassissimo costo per le imprese. Si è però attribuito ai lavoratori un compito che non dovrebbe spettare loro ed è venuta meno qualsiasi relazione tra rischio e rendimento. Il ruolo di un sistema bancario sano è quello di erogare credito alle aziende meritevoli, adeguando il costo del finanziamento al profilo di rischio dell’impresa. Se il sistema bancario non concede credito a un’impresa o lo concede a un tasso elevato, perché il lavoratore è oggi costretto a prestare i propri soldi all’impresa (di cui è anche dipendete) ricevendo un tasso estremamente inferiore a quello di mercato, accollandosi quindi un rischio non remunerato?
L’ipotesi di lavoro, ancora allo stato embrionale e passibile di non trovare attuazione nella prossima legge di stabilità, presenta sicuramente alcune criticità da gestire con cautela e sarà dunque fondamentale valutare i dettagli della proposta. La direzione è però quella giusta (e il fatto che non trovi il consenso di molti è di solito, in Italia, un segno incoraggiante).