Una delle prime manovre del governo Renzi è stata quella di alzare l’aliquota sulle cosiddette rendite finanziarie dal 20 al 26%. Se il principio che ha ispirato la manovra era condivisibile, la sua messa in pratica è stata, per colpa o per leggerezza, approssimativa, lasciando dietro di sé diverse distorsioni e dando origine ad effetti collaterali forse imprevisti.
L’Italia si caratterizza per una tassa sui redditi finanziari sostanzialmente bassa rispetto alla media dei paesi OCSE, mentre al contrario il peso fiscale sui redditi da lavoro è tra i più elevati. C’era quindi un forte paradosso per cui lo stesso reddito è tassato maggiormente se proveniente da attività lavorativa e meno se frutto di un investimento. Evidentemente, all’aumentare del reddito, il divario tra le due casistiche si allarga (data la natura progressiva dell’IRPEF) per cui se un individuo percepisce un reddito da lavoro lordo di 1.000.000 di euro paga un’aliquota effettiva di oltre il 40%. Se lo stesso guadagno lordo fosse invece frutto della vendita di strumenti finanziari, l’aliquota sarebbe stata pari alla metà (prima dell’aumento al 26%), con un reddito netto percepito molto maggiore. In quest’ottica, la decisione di aumentare l’imposizione sui redditi finanziari poteva essere addirittura auspicabile. Due sono però le storture, preesistenti, che il provvedimento ha aggravato: la differenza di trattamento fiscale tra diversi redditi finanziari e la doppia tassazione sui dividendi. I redditi derivanti da azioni o obbligazioni private sono tassati ora al 26% mentre su quelli derivanti da guadagni in conto capitale e da interessi sui titoli di Stato di qualsiasi paese l’aliquota è rimasta al 12,5%. Questa struttura induce forti distorsioni che abbiamo già approfondito.
Sui dividendi distribuiti si paga un’aliquota pari al 26%, alla stregua di quanto pagato sulle plusvalenze o sulle cedole delle obbligazioni societarie. Vi è però una sostanziale differenza tra un azionista e un obbligazionista: il secondo è un creditore di una società a cui ha prestato del denaro in cambio di un interesse, mentre il primo è proprietario di una quota del capitale. Il dividendo distribuito agli azionisti è determinato a partire dall’utile netto dell’azienda; utile su cui si sono già pagate le tasse di competenza dell’impresa, pari al 27,5% dell’utile lordo (per quanto riguarda l’IRES) più un ammontare variabile dovuto ai sensi dell’IRAP, la cui base imponibile è invece il fatturato con l’esclusione di alcune voci di costo.
Insomma, l’azionista paga indirettamente le tasse sugli utili d’impresa e poi il 26% sulla parte di utile distribuito. Il risultato è che la pressione fiscale effettiva in capo all’azionista rispetto all’utile generato dall’impresa è di parecchio superiore al 26%. L’estensione ai dividendi della tassa sui redditi finanziari (e il recente innalzamento dell’aliquota) rappresenta un forte disincentivo per il risparmiatore e per l’imprenditore a investire in capitale di rischio.
Non solo la differenza di tassazione tra titoli che finanziano l’economia reale, azioni e obbligazioni private, e titoli di Stato, che creano quindi una rendita, favorisce l’allontanamento di ricchezza dal tessuto economico, ma la doppia tassazione dei dividendi penalizza ancora di più l’acquisto di azioni, direttamente ma anche indirettamente tramite fondi comuni, per i risparmiatori.
In un momento in cui il finanziamento all’economia da parte del canale bancario stenta a riprendere è quanto più fondamentale incentivare i cittadini investire anche in capitale di rischio. Esattamente il contrario di quanto fatto ultimamente.