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A questa domanda ha risposto Paolo Manasse, Professore di macroeconomia e di politica economica all’Università di Bologna, in un capitolo del libro di Carlo Stagnaro, “Cosa succede se usciamo dall’euro?”
Nel contributo di Manasse si sottolinea in primo luogo il ruolo rivestito oggi dall’euro nell’economia e negli scambi internazionali. L’euro è la seconda valuta di riserva delle banche centrali del mondo e rappresenta anche la seconda valuta più utilizzata nel commercio internazionale. Questo conferisce valore alla moneta, un po’ come avviene con l’utilizzo del telefono: più si utilizza nel mondo maggiore è la sua utilità.
All’inizio degli anni ’90, le nazioni europee si sono trovate davanti ad un bivio: sacrificare la propria sovranità monetaria oppure la libertà di circolazione di capitali, ostacolata dalle continue “svalutazioni competitive”.
Si optò per la prima scelta che avrebbe portato l’attuazione di una politica monetaria comune scongiurando i rischi valutari e inflazionistici. Per l’Italia, che in passato aveva spesso fatto ricorso allarma della svalutazione competitiva della lira, questa fu una grande novità.
Tanti italiani si domandano cosa sarebbe successo se l’Italia non avesse mai adottato l’euro. Paolo Manasse insieme a Tommaso Nannicini e Alessandro Saia, hanno tentato di replicare l’andamento dell’economia italiana se questa avesse continuato ad avere la lira. Per farlo, come si vede dal grafico in basso, si utilizza un indice sintetico composto che traccia la crescita dei Paesi fuori dall’ euro. Da questo studio, non si evidenziano sostanziali differenzi tra i due sentieri di crescita che l’economia italiana avrebbe imboccato con o senza l’adozione dell’euro.
In pratica, quello che il professor Manasse vuole far comprendere è che le performance dell’economia italiana dipendono soprattutto da altri fattori quali la bassa produttività e innovazione tecnologica, la corruzione, la governance delle banche e l’inefficienza della pubblica amministrazione.
I pochi precedenti storici sulla rottura di aree monetarie, tra l’altro difficilmente comparabili, non rendono certamente agile il compito di stimare le conseguenze di un’ Italexit. Così come avviene oggi per il Regno Unito, con la Brexit, è possibile immaginare due scenari: un’uscita ordinata, o soft Italexit, e un’uscita disordinata o hard Italexit.
Secondo Manasse, le possibilità di riuscita della prima opzione sono molto esigue. Una soft Italexit, prevedrebbe un’uscita “negoziata” tra l’Italia e l’UE volta alla modifica dei Trattati. Questa strada però richiederebbe tempi molto lunghi e rischierebbe facilmente di sfociare nello scenario hard.
Ecco quale sarebbe la sequenza di eventi che secondo il professor Manasse potrebbe portare l’Italia ad uscire dall’euro.
Il professore Manasse non ha dubbi a riguardo: i benefici sarebbero molto bassi e i costi molto alti.
Nel breve periodo, la “nuova lira” verrebbe svalutata del 20-30% nei confronti dell’euro, per ridurre il divario di competitività e stimolare l’export. La svalutazione porterebbe gli altri partner europei ad adottare ritorsioni commerciali, come l’imposizione di dazi sulle merci italiane. Il rovescio della medaglia vedrebbe i prezzi dei prodotti importati aumentare del 20-30% generando una crescita dell’inflazione nell’economia.
La ridenominazione forzosa del debito pubblico in una nuova moneta è assimilata nei contratti come un evento di default parziale. Questo farebbe perdere all’Italia la possibilità di chiedere nuovi prestiti sui mercati finanziari.
Inoltre, una minoranza di creditori potrebbe appellarsi alla ridenominazione (attivando le CAC – clausole di azione collettiva) costringendo l’Italia a rimborsare il 25% dei suoi impegni in euro.
I debiti delle aziende rimarrebbero comunque in valuta originale, euro o dollari, e pertanto aumenterebbe a causa della svalutazione.
Concludendo, quindi, secondo l’economista Manasse, l’uscita dall’euro da parte dell’Italia causerebbe a tutti gli effetti una “crisi gemella”, cioè crisi valutaria e bancaria. Storicamente, quando questa si è verificata, il prodotto interno lordo si è ridotto di circa il 10%.
Conti alla mano, si tratterebbe di un costo complessivo per l’Italia della cifra di, udite udite, 170 miliardi di euro.
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