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Per l’Italia un’occasione più unica che rara

Vecchia, povera, in difficoltà nell’agganciare la ripresa e incapace di offrire prospettive future ai giovani. Questa è l’Italia fotografata dal rapporto annuale dell’Istat. Un paese ancora alle prese con la crisi, nonostante si sia distinto come alunno diligente nello svolgere i compiti a casa nel riordino dei conti pubblici. Un’immagine che deve far riflettere sulle priorità politiche ed economiche del Paese anche, se non soprattutto, alla luce dei risultati delle ultime elezioni europee.

di Flavio Talarico - 30 Maggio 2014 - 7'

Vecchia, povera, in difficoltà nell’agganciare la ripresa e incapace di offrire prospettive future ai giovani. Questa è l’Italia fotografata dell’Istat, nel suo rapporto annuale. Un paese ancora alle prese con la crisi, nonostante si sia distinto come alunno diligente nello svolgere i compiti a casa nel riordino dei conti pubblici. Un’immagine che deve far riflettere sulle priorità politiche ed economiche del Paese anche, se non soprattutto, alla luce dei risultati delle ultime elezioni europee.

Il numero dei disoccupati in Italia tra il 2008 e il 2013 è raddoppiato, dopo nove anni consecutivi di contrazione. Dall’inizio della crisi il numero dei senza impiego è aumentato di 1 milione 421 mila unità (369 mila nel solo 2012) ed è arrivato a quota 3 milioni 113 mila unità a fine 2013. Il trend di crescita, seppur a ritmi meno sostenuti, è continuato nel primo trimestre di quest’anno, portando il numero dei senza lavoro a 3 milioni 248 mila unità (dato a marzo 2014). Se a questi si aggiungono le forze di lavoro potenziali, il totale dei disoccupati e delle persone che vorrebbero lavorare supera i 6,3 milioni di unità. Ma non è tutto, perché anche chi ce l’ha vive nell’ansia. I numeri ci dicono che i contratti di lavoro ‘’standard’’, cioè quelli a tempo indeterminato, sono sempre più rari, tanto che oltre 1 milione e 380 mila persone hanno visto il proprio contratto diventare part-time o assumere altre forme dall’inizio della crisi. Cinque anni consecutivi di crescita del numero di disoccupati non possono che aver lasciato eredità di natura sociale le cui ferite assumono nell’economia italiana aspetti strutturali.

Non è un Paese per giovani. Questa non è certo una novità, dato che in Italia è in atto da oltre 30 anni una contrazione demografica, ma i numeri dell’Istat ci parlano di un Paese con sempre meno giovani e laureati e con un massa potenziale di forza lavoro che si trasferisce all’estero perché, tra difficoltà d’ingresso e scarse opportunità, in Italia sembra impossibile trovare lavoro. Almeno così sembra dai dati. A partire dal 2008 il tasso di occupazione delle persone con meno di 35 anni è calato di circa 10 punti percentuali (dal 50,4 al 40,2 per cento). Nei cinque anni di crisi, gli occupati 15-34enni sono diminuiti di 1 milione 803 mila. In risposta a ciò, i giovani italiani hanno sempre più consistentemente dovuto salutare l’Italia per cercare fortuna all’estero. Oltre 94 mila ragazzi tra i 15 e 34 anni hanno deciso di lasciare il Paese dal 2008 ad oggi (26 mila solo nel 2012), di cui 6 mila 340 unità in possesso di un diploma di laurea. Tra le mete più gettonate c’è l’Europa, con Germania e Regno Unito in testa.

Vietato far figli (prima dei 30 anni).Nuovo minimo storico per quanto riguarda le nascite in Italia. L’Istat rivela infatti che le donne italiane oltre a fare pochi figli (1,29 per donna), partoriscono sempre più tardi. In media, le donne italiane mettono alla luce il loro primo figlio all’età di 31 anni. Va da sé che, con un’immigrazione in calo e la diminuzione della fecondità delle donne straniere in Italia – scesa secondo l’Istat a 2,37 figli per donna nel 2012- l’Italia sembra destinata a essere sempre più un paese di persone anziane. Ed è già così infatti. L’indice di vecchiaia è tra i più alti al mondo, con 151,4 persone over 65 ogni 100 giovani con meno di 15 anni. In Europa siamo secondi solo alla Germania che ha un valore più alto (158) mentre la media tra i 28 Peasi europeo è 116,6.

Lo scenario sopra descritto, per i più, è facilmente imputabile all’effetto congiunto dell’asuterity imposta dall’Europa e degli errori politici italiani degli ultimi 20-25 anni. Ed è un pensiero difficile da smentire, ancor di più se è proprio l’Istat a certificare che l’Italia è stata il paese più virtuoso in questi anni di crisi.

È da sottolineare la posizione virtuosa dell’Italia, che tra i paesi ad elevato debito iniziale è stato l’unico che ha conseguito un consistente avanzo primario” rileva l’Istat, sottolineando che “l’Italia si distingue come il paese che, date le caratteristiche del ciclo, ha attuato il maggiore sforzo di consolidamento fiscale”.

Ma quanto ci è costato tutto questo? In termini sociali tantissimo, come visto in precedenza, in termini quantitavi: 78 miliardi di euro. E’ lo stesso Istituto ad ammettere che l’Italia è stato l’unico Paese dell’Unione economica e monetaria a “non avere attuato politiche espansive , presentando effetti cumulati restrittivi per oltre 5 punti di pil”.

Dopo i compiti a casa, si pensi alla crescita, con un occhio ai conti. L’Italia è stato l’unico paese in cui, in un contesto di severa recessione economica, la crescita del debito pubblico è rimasta al di sotto della crescita del flusso di interessi passivi. Ciò è avvenuto per effetto di significative misure restrittive di bilancio. La bassa crescita economica ha però in parte vanificato lo sforzo delle politiche di contenimento della crescita del rapporto debito/Pil, che è continuato e dovrebbe continuare a salire fino a toccare il 134%-135% nel 2014, a seconda delle previsioni.

Siamo quindi stati i più diligenti nello svolgere i compiti a casa, ma non abbiamo raccolto i frutti del lavoro fatto. E allora è arrivato il momento di cambiare rotta. Anche l’adagio dei conti in ordine per rassicurare i mercati internazioanli sulla sostenibilità del nostro debito sembra non avere più conferme. Smentito dalle stesse parole dell’Istat che dichiara come “ai fini della valutazione della sostenibilità fiscale di lungo periodo, la dinamica del rapporto debito/Pil, pur importante come indicatore di vulnerabilità, non rappresenta l’unico fattore significativo”, sottolineando come i principali elementi di rischio per la sostenibilità del debito pubblico risultino attualmente la bassa dinamica del Pil e il differenziale tra tassi di interesse e tasso di crescita reale dell’economia. Gli sforzi non sono stati del tutto inutili, ma per consolidare e preservare i risultati raggiunti bisogna ora agire sul denominatore del rapporto di indebitamento, andando cioè a intervenire sulla dinamica della crescita piuttosto che mettendo in atto nuovi e dolorosi rattoppi dal lato del debito.

Sono i numeri, non solo quelli espressi dall’Istat, che ce lo impongono. Il nuovo calo del Pil non è l’unico dato allarmante. A esso si aggiungono i segnali di quasi stagnazione provenienti dai dati sulla produzione industriale, le vendite al dettaglio, gli ordini alle imprese e dall’inflazione. Il bilancio tracciato dall’Istituto di Statistica sugli effetti della crisi nel nostro Paese, sia in termini sociali che di conti pubblici, propone spunti non tanto per riprendere l’annoso dibattito sull’austerity, quanto per sottolineare l’impellente esigenza di mettere finalmente in atto quelle riforme strutturali, a livello nazionale e comunitario, necessarie a dare impulso alla crescita del Paese.

Oggi viene offerta all’Italia un’occasione da non perdere. La sorprendente vittoria (nei numeri) di Renzi alle elezioni europee conferisce un nuovo e rafforzato mandato politico all’attuale governo non solo a livello domestico ma anche e soprattutto a livello comunitario. Con l’exploit elettorale e l’inizio del semestre europeo a guida italiana (dal 1* luglio), il governo si troverà a poter ricoprire nei prossimi mesi il ruolo di forza trainante per una politica fiscale ed economica europea orientata alla crescita e non solo al consolidamento fiscale. Per rilanciare la crescita del Paese e fare in modo che la fotografia tracciata dall’Istat non diventi un testamento per le generazioni future, l’Italia e il governo non devono buttare via questa occasione.

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