Le riforme delle pensioni hanno sempre trovato la forte opposizione dei lavoratori, ma spesso di quelli relativamente meno colpiti, ossia coloro più vicini alla pensione. Queste riforme pongono invece grandi sfide a una categoria che si è sentita meno coinvolta, i giovani.
Il sistema pensionistico italiano per molti anni si è basato sul cosiddetto sistema retributivo, che prevedeva che la pensione fosse pari a una percentuale, circa l’80%, del reddito degli ultimi anni di vita lavorativa, con l’obiettivo quindi di mantenere pressoché inalterato il tenore di vita acquisito. Dal momento che solitamente il reddito di un individuo a fine carriera è più alto del reddito medio sull’arco di tutta la vita lavorativa, la pensione che si riceve sarà maggiore dei contributi versati.
Questo modello si regge a patto che siano soddisfatte alcune condizioni: che la crescita demografica sia continua e sostenuta e l’economia e l’occupazione siano in crescita. È infatti necessario che entrino più giovani nel mercato del lavoro di quanti pensionati ne escono perché i primi possano coprire le pensioni dei secondi senza gravare sui bilanci pubblici. Si origina in questo modo una forte iniquità intergenerazionale perché i giovani trasferiscono parte dei propri redditi alle generazioni precedenti ma corrono il rischio di non godere dello stesso trattamento qualora venisse meno uno degli elementi di cui sopra. Come poi è successo.
Il rallentamento demografico ha messo sotto pressione il sistema pensionistico, andando a gravare sempre di più sulle finanze pubbliche, tanto che si sono rese necessarie diverse riforme, da quella Amato del 1992 fino alla recente riforma Fornero, volte a rendere finanziariamente sostenibile il sistema pensionistico. Queste riforme, più o meno incisive ed efficaci, si sono mosse nella direzione di passare dal sistema retributivo ad uno contributivo. Le pensioni contributive sono pari ai versamenti effettuati nel corso della vita lavorativa, ma soggette ad alcuni aggiustamenti al ribasso in caso di aumento dell’aspettativa di vita o di rallentamento della crescita economica.
Il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo era inevitabile per garantire la sostenibilità economica del sistema previdenziale, ed elimina quell’iniquità intergenerazionale che vedeva un passaggio di risorse dai giovani lavoratori ai pensionati. Si pongono però ora delle sfide importanti: se prima la pensione era l’80% dell’ultimo stipendio, con il sistema contributivo, alla luce del fatto che lo stipendio medio lungo tutto l’arco della vita è minore di quello degli ultimi anni, porterà ad una pensione inferiore.
Non essendo alcuna riforma retroattiva, è evidente che il passaggio al sistema contributivo ha un impatto maggiore sui lavoratori giovani, anche se questi si sono sentiti meno coinvolti dal cambiamento. Per coloro invece che sono più prossimi all’età pensionabile, le riforme hanno imposto un sacrificio in termini di allungamento della vita lavorativa, ma uno molto moderato in termini di reddito da pensione. Per i giovani invece la pensione pubblica sarà molto meno consistente di quella delle generazioni passate.
Crolla quindi la certezza che lo Stato provvederà a mantenere il tenore di vita degli individui alla fine del percorso lavorativo, e si pone l’esigenza, soprattutto per i giovani, di partecipare attivamente alla formazione di una rendita complementare alla pensione. Gli strumenti per farlo sono diversi, dai fondi pensione, che godono di un regime fiscale agevolato, ai fondi comuni di investimento che offrono maggiore flessibilità e personalizzazione dell’investimento. Al di là dello strumento, i giovani lavoratori sono chiamati oggi ad avere un’attitudine al risparmio più elevata di quella che hanno avuto le generazioni precedenti perché da questa dipenderà la possibilità di garantirsi un maggior reddito in età avanzata.