L’innovazione finanziaria – la creazione di nuovi prodotti e servizi finanziari – può essere usata dagli intermediari per estrarre rendite dal risparmiatore senza dargli in cambio niente di sostanziale (è quello che spesso avviene con la creazione di prodotti complessi) oppure per offrire un servizio o un prodotto che soddisfi un’esigenza sentita o risolva un problema per il risparmiatore. Molte innovazioni nella storia della finanza hanno avuto questa funzione. Ad esempio, la creazione negli anni Trenta del mutuo a tasso fisso e lunga scadenza che, con la possibilità di ripagare il debito con rate di importo costante e quindi prevedibile, ha facilitato non poco la pianificazione finanziaria.
C’è in Italia un fenomeno che ci tocca da vicino, quello delle scommesse, dei giochi e delle lotterie, che ha assunto dimensioni e connotazioni preoccupanti e che l’innovazione finanziaria può contribuire a correggere e contenere.
Le famiglie italiane spendono 84 miliardi l’anno in giochi e scommesse. Quella cifra è pari al 22% della spesa mondiale per scommesse, una enormità considerato che l’Italia ha lo 0,9% della popolazione mondiale e meno del 3% del PIL del pianeta.
È una vera anomalia. Si tratta di 4 mila euro a famiglia all’anno, 10 volte più di quello che gli italiani dovrebbero spendere se la spesa in scommesse in relazione al loro reddito fosse come nel resto del mondo. E poiché non tutti (ma non esistono dati in proposito) scommettono, la spesa tra gli scommettitori deve essere ben più elevata. Vero che dei 4 mila euro spesi in media per famiglia, 3 mila vengono resi come premi, ma 1.000 vengono persi perché “trattenuti” in parte dai gestori dei giochi e in larghissima parte dallo Stato. È una tassa vera e propria. Ma diversamente da altre tasse non è sgradita: viene pagata “volontariamente” e non ha bisogno dell’agenzia delle entrate per essere raccolta.
Non sorprende che un paese molto indebitato vi ricorra a piene mani e nessun governo si azzardi a mettere in discussione questi proventi. Il governo che lo facesse dovrebbe trovare parecchi miliardi di entrate sostitutive e convincere gli italiani a pagarle. La spesa in scommesse non è sempre stata così elevata: nell’ultimo decennio è più che quadruplicata, una crescita forsennata. Questa spesa è distribuita tra diverse attività, ma all’incirca il 60% in giochi con le macchinette, gratta e vinci etc. e 40% in lotterie tradizionali come totocalcio e lotteria di capodanno, lotto etc. La crescita è dovuta per lo più alla spesa nelle macchinette.
Quale è il problema? Dopotutto, si può dire, chi scommette sceglie di farlo e ognuno è libero di fare quello che vuole con i propri soldi. Vero. Ma ci sono due problemi.
Primo, queste scommesse sono tutte “inique”, nel senso che chi gioca perde soldi in media. Come detto prima, dei 4.000 euro di spesa, solo 3.000 ritornano alle famiglie. Quindi in media hanno un rendimento negativo. Se uno gioca per arricchirsi, e gioca ripetutamente, si impoverisce di sicuro. Questo aspetto è vero per le macchinette ed è altrettanto vero per le più classiche lotterie. Ma, si può dire, il fatto che si perdano soldi può non essere di per sé un problema – è il prezzo del divertimento, e lo stato che amministra queste lotterie garantisce che quello che ci si rimette sia quello che è stato annunciato. Ovvero garantisce che il gioco non sia più truccato del previsto. La domanda però è se si possano creare lotterie che anziché produrre perdite consentano, almeno in media, di ottenere dei guadagni.
Il secondo problema ha a che fare con l’aggettivo “volontariamente” che di proposito ho messo tra virgolette. È dubbio che queste scommesse vengano scelte liberamente. La crescita delle scommesse da bolla speculativa che ho documentato fa sorgere qualche dubbio. È mai possibile che in pochi anni gli italiani abbiano subito un cambio volontario di preferenze così marcato da indurli a quadruplicare la spesa in scommesse? E perché poi per giocare con le macchinette? Il lavoro di Natasha Dow Schüll, una antropologa dell’MIT di Boston che ha passato vent’anni a studiare il fenomeno, suggerisce che le scommesse, particolarmente quelle con le macchinette, provocano dipendenza. La macchinetta cattura il giocatore e lo assorbe. Questa forza assieme alla campagna di promozione e di diffusione delle macchinette guidata dai Monopoli di Stato allo scopo di massimizzare le entrate, spiegano la crescita impetuosa del fenomeno. Non è il frutto di una scelta volontaria ma di una decisione estorta generando dipendenza con sofisticate strategie di marketing. La dipendenza, a sua volta, non solo è costosa perché chi gioca alle macchinette perde sodi, ma ancor di più perché perde tempo. Tempo che potrebbe essere usato per accrescere il proprio capitale umano o semplicemente per lavorare. Di questi costi lo Stato, accecato dalle proprie necessità di finanziamento non si cura. C’è modo di limitare questo fenomeno? Possiamo contare anche (ma non solo) sull’innovazione finanziaria per contrastare la diffusione di queste scommesse a perdere? La risposta è sì. Illustrerò come in un prossimo intervento.