Non cresciamo. Gli ultimi dati rivelati dall’ISTAT indicano che l’Italia è entrata in recessione, ancora una volta, avendo registrato due trimestri consecutivi di contrazione del PIL. Questo dato è purtroppo una non-novità, perché in pochi avevano davvero creduto alle stime di crescita del Governo di qualche mese fa, ma la freddezza dei numeri riporta l’attenzione sull’incapacità dell’Italia di compiere qualche passo significativo verso il cambiamento.
La contrazione del Prodotto Interno Lordo dello 0,2% nel secondo trimestre del 2014 rispetto a quello precedente, ha avuto una grande eco soprattutto perché ha segnato l’ennesima entrata in recessione dell’economia italiana, tuttavia il dato è interessante soprattutto perché, al di là della retorica dei proclami, ci obbliga a tornare con i piedi per terra e a confrontarci con lo stallo economico e politico che ha caratterizzato il nostro paese negli ultimi vent’anni.
Il ritorno in recessione fornisce l’occasione per chiederci quanto le difficoltà a crescere siano un fenomeno italiano e quanto invece siano frutto di una dinamica economica più estesa che colpisce anche le economie più vicine a noi. I dati suggeriscono che questa sia una malattia principalmente italiana. Tra il 1996 e il 2013 i paesi dell’area euro nel loro complesso hanno avuto una crescita cumulata del PIL pro capite al netto dell’inflazione del 20%, con alcuni paesi che hanno visto una crescita più consistente, come l’Austria che è cresciuta del 32%, e altri che hanno registrato una crescita inferiore, come Francia e Grecia rispettivamente al 18 e 15%. L’Italia ha visto un aumento del PIL reale pro capite del 2,1%, un decimo della media dei paesi dell’area euro. Per quanto faccia clamore mediatico, il problema non è certo la riduzione del PIL degli ultimi sei mesi.
Perché non cresciamo? È evidente che a questa domanda, semplice e sacrosanta, la risposta non sia così univoca. Una recente ricerca di Confcommercio identifica una serie di ritardi sistemici dell’Italia rispetto a paesi simili, quali la lentezza della burocrazia (269 ore all’anno in Italia per un’impresa per pagare le tasse, contro le 132 della Francia e le 218 della Germania), il costo dell’energia, la lentezza della giustizia civile (1185 giorni per completare un processo), o ancora i tempi di pagamento della pubblica amministrazione. A ciò bisogna aggiungere il carico fiscale sulle imprese e la corruzione diffusa che viene quasi considerata come un male necessario del tessuto economico.
L’immobilismo italiano ha dei costi enormi, sia in termini di occupazione che di gestione delle finanze pubbliche. Di fronte al conclamato fallimento delle politiche di austerità per risollevare i conti pubblici, la strada maestra indicata da molti economisti e politici è quella di crescere fuori dalla crisi del debito. Alla luce dell’esperienza passata questo obiettivo non sembra però solo ambizioso, ma decisamente un’utopia, quanto meno senza compiere riforme incisive che allentino la pressione fiscale sul lavoro, accelerino i tempi della giustizia e combattano la corruzione. Uscire dalla recessione è possibile ma è necessario un cambio di passo da parte della politica e una presa di consapevolezza diversa da parte dell’opinione pubblica. Aspettando la classe politica, l’uscita dalla recessione inizierà quando i cittadini si faranno portavoce della necessità del cambiamento che è mancato negli ultimi vent’anni.
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