Un anno dopo l’entrata in vigore dei decreti attuativi, è l’ora dei primi bilanci per valutare l’impatto della riforma del mercato del lavoro, il cosiddetto “Jobs Act”.
Il Jobs Act è stato introdotto per cambiare la fisionomia del mercato del lavoro, con l’obiettivo di ridurre la precarietà e aumentare il numero dei contratti di lavoro a tempo indeterminato, oltre che per cercare di mettere fine all’ambiguità delle finte partite IVA e contratti co.co.pro. Ovviamente, come qualsiasi riforma che coinvolge il mercato del lavoro l’obiettivo ultimo, è quello di creare maggiore occupazione.
Quindi ci chiediamo: “il Jobs act è riuscito nei suoi obiettivi?”
Proveremo a dare una risposta, cercando di far luce sui numeri emersi dai vari rapporti Inps e Istat che hanno generato un po’ di confusione e si prestano ad interpretazioni di parte.
Secondo l’osservatorio sulla precarietà, pubblicato dall’Inps e utilizzato per analizzare i flussi dei contratti di lavoro, nel 2015 ci sono stati 764mila contratti stabili in più.
L’esultanza del premier Matteo Renzi su twitter non è di certo stata delle più caute:
Tuttavia, prima di brindare o gridare al miracolo, occorre prendere il dato con le pinze.
Come sostiene il Prof. Ricolfi dell’Università di Torino, i 764mila contratti in più sono ottenuti sommando il numero delletrasformazioni (da contratti a termine in contratti a tempo indeterminato)pari a 578mila e il saldo fra nuove assunzioni e cessazionidi contratti a tempo indeterminato (186mila). Quindi non si tratta di nuovi posti di lavoro, e scorpiremo il perché tra poco.
Sul fronte delle trasformazioni, c’è stato un miglioramento rispetto al 2013 e al 2014, ma al confronto con il 2012 (600mila) i numeri restano in calo.
Per quanto riguarda il saldo positivo fra assunzioni e cessazioni di contratti stabili, Ricolfi rileva che i nuovi contratti, non avendo più le tutele che erano in vigore nel 2014, sono in realtà più precari dei vecchi.
La risposta del Governo non si è di certo fatta attendere. Il sottosegretario Tommaso Nannicini e il consigliere del premier Marco Leonardi si sono esposti come paladini a difesa del Jobs Act dichiarando in primo luogo, che le assunzioni stabili nette sono state in enorme aumento, quadruplicando i numeri del 2013. Inoltre le trasformazioni hanno giocato un ruolo chiave stabilizzando e consolidando il mercato del lavoro, poiché la maggior parte dei datori prima assume a tempo determinato e in seguito trasforma il contratto.
Inoltre, guardando ai dati Istat (non destagionalizzati), che analizzano il flusso dei lavoratori inveceche quello dei contratti, nel 2015 c’è stato un incremento sia degli occupati a tempo indeterminato (+214mila) che degli occupati a tempo determinato (+85mila).
In definitiva, Leonardi e Nannicini hanno sostenuto a gran voce l’inversione di tendenza promossa dal Jobs Act sottolineandone gli effetti positivi sia in termini quantitativi di crescita dell’occupazione che, soprattutto, di una maggiore stabilità a livello qualitativo dei rapporti di lavoro.
Innanzi tutto è doveroso fare chairezza sui numeri. L’Inps registra il flusso netto di contratti, mentre l’Istat rileva il numero dei lavoratori.Un individuo può avere diversi rapporti di lavoro in un anno (i contratti misurati dall’Inps), mentre per l’Istat rappresenta uno ed un solo posto di lavoro. Inoltre, come rileva Ricolfi, dei 756mila contratti, solo 186mila sono nuovi contratti netti, il resto deriva da trasformazioni di contratti in essere. Quindi, come dicevamo sopra, i nuovi contratti non sono necessariamente nuovi posti di lavoro.
Uno studio condotto da ricercatori (Fana, Guarascio, Cirillo), pubblicato sul Sole24ore, afferma che l’analisi di Leonardi e Nannicini presenta alcuni punti deboli:
1) L’utilizzo di dati non destagionalizzati, sopravvaluta i numeri dell’occupazione.Se guardiamo ai dati destagionalizzati, i nuovi occupati a tempo indeterminato a dicembre 2015 rispetto a dicembre 2014 sono 135.000 anziché 214.000.
2) Gli effetti degli incentivi fiscali (la decontribuzione) sono incontestabilmente rilevanti.Il maggior aumento degli occupati si è proprio registrato subito dopo l’annuncio degli incentivi. (vedi Fig. 1: Andamento della quota di occupati a tempo indeterminato ed a tempo determinato tra il 2014 e il 2015).
3) Le trasformazioni di contratti non si traducono in nuova occupazione poiché si tratta di lavoratori già occupatie inoltre non implicano una maggiore stabilità dei rapporti di lavoro.
4) Il maggior numero dei contratti di lavoro stabili si è concentrato in settori a bassa produttività(commercio al dettaglio, trasporto e magazzinaggio, ristorazione, etc…). Con una produttività stagnante, la dinamica strutturale italiana rimane poco competitiva al confronto con altri paesi.
A considerazioni analoghe arriva un recente studio di Bankitalia secondo il quale, la crescita del numero di assunzioni a tempo indeterminato è legata principalmente agli incentivi fiscali e non al Jobs Act. I ricercatori, Paolo Sestito ed Eliana Viviano, ritengono che gli effetti del Jobs Act spieghino appena l’1% dei nuovi posti di lavoro.
Il 2016 è un anno decisivo: la decontribuzione per le aziende sarà ridotta del 60%. Senza questa misura tampone, è opportuno capire quale sarà il trend del mercato del lavoro.
Un po’ come quando i mercati si troveranno da soli senza lo stimolo del Quantitative Easing.
A un anno dalla sua introduzione, è ancora prematuro affermare che il Jobs Act è riuscito a passare l’esame. Probabilmente, i giudizi definitivi dovranno attendere la fine del 2016. Nel frattempo, è auspicabile un seguito dell’attività di ricerca volta a fornire spunti utili per cercare di trovare strade utili a risolvere i problemi dell’occupazione in Italia.