Che il sistema produttivo italiano sia bancocentrico non è una novità. La crisi che attanaglia il Paese da anni ne ha solo amplificato gli effetti, riproponendo i problemi irrisolti del sistema finanziario italiano: la dipendenza dalle banche, l’assenza di mercati azionari e obbligazionari sviluppati e la mancanza di risorse alternative per l’accesso al credito.
Ma la crisi offre anche l’occasione per rafforzare il ruolo del mercato dei capitali e rendere più equilibrata la struttura del sistema finanziario. Occasione che, fino a questo momento, non è stata colta da chi avrebbe dovuto, la classe dirigente. Nonostante la persistente emergenza economica e sociale la politica continua infatti a perseguire la logica del clientelismo e assistenzialismo alimentati dai rubinetti della spesa pubblica.
Ultimo esempio è il decreto IMU-Bankitalia. Una sostanziale ‘’truffa’’ contabile a favore dei bilanci di alcune banche del Paese e dell’erario, oltre che un trasferimento di risorse dai contribuenti agli istituti di credito.
In sintesi, il decreto comporta:
– l’innalzamento del valore delle quote azionarie di Banca d’Italia da 156.000 euro a 7,5 miliardi di euro;
– la trasferibilità di tali quote;
– una remunerazione massima del 6% del loro nuovo valore nominale;
– una tassazione assimilata a plusvalenza della ricapitalizzazione.
In pratica, gli istituti di credito vengono ricapitalizzati in un batter di ciglia ricevendo, inoltre, potenziali trasferimenti monetari, mentre il governo riceve in cambio un introito tramite la tassazione delle plusvalenze. Il tutto per coprire le mancate entrate dovute all’abolizione dell’IMU. Pietra angolare alla base del governo delle larghe intese.
Un fine che giustifica il mezzo o un regalo mascherato ai soliti noti?
Certo è che la misura torna comoda in vista degli stress test della Banca centrale europea per valutare il capitale detenuto dalla principali banche dell’area euro al fine di fronteggiare gli shock economici. Ma può questo giustificare un tale trasferimento di risorse da Palazzo Koch alle banche azioniste? O è solo una scusa per rimandare ancora una volta l’emancipazione del sistema produttivo italiano dal bancocentrismo?
Al fine di garantire piena funzionalità al sistema finanziario e fornire alle imprese italiane le risorse adeguate in vista delle ripresa ciclica, forse avrebbe avuto più senso effettuare interventi di natura sia congiunturale che strutturale volti ad eliminare l’eccessiva dipendenza delle imprese dal credito bancario e l’insufficiente raccolta diretta di fondi sui mercati.
Da anni si invoca lo sviluppo di un sistema finanziario più articolato, in cui il ruolo dei capitali e degli investitori sia in linea con quello degli altri principali paesi. Il ribilanciamento delle fonti di finanziamento richiede interventi su più fronti, e non solo rendere le banche più e meglio patrimonializzate a spese delle riserve della Banca d’Italia. Il compito della politica economica è quello di rimuovere gli ostacoli e offrire gli strumenti per incentivare lo sviluppo del mercato dei capitali e non consolidare lo status quo.
A tal proposito, risulta preoccupante l’allarme lanciato pochi giorni fa dal Direttore Generale di Bankitalia, Salvatore Rossi. ‘‘In Italia il sistema finanziario e il sistema bancario non siano più sinonimi”, ha detto il numero due di Palazzo Koch, sottolineando come “una coesistenza equilibrata di mercati e intermediari” renda “più stabile il flusso di credito per l’economia reale”. In sostanza, ha avvertito Rossi, il bancocentrismo a cui è assoggettato il sistema produttivo italiano ha rallentato, in passato, l’uscita dalla recessione e, ora, sta “frenando la ripresa”.
Allora perchè continuare a sostenere le banche invece di promuovere iniziative volte ad agevolare l’accesso delle nostre imprese ai mercati azionari e obbligazionari per creare un sistema finanziario più stabile e un migliore accesso al credito?