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La crescita economica non è un problema che riguarda soltanto l’Italia, ma tutta l’eurozona. Nell’ultimo trimestre del 2018, l’economia italiana è entrata in recessione tecnica (-0,2%), mentre il tasso crescita in Europa è il più basso da oltre sei anni (0,2%). La Germania, prima economia dell’eurozona, ha evitato la recessione tecnica per un soffio (0,02% nell’ultimo trimestre 2018).
La struttura economica dell’eurozona è stata improntata sull’ombra del modello tedesco. Negli ultimi anni, l’economia tedesca ha marciato a suon di record della bilancia commerciale, la più alta al mondo per tre anni consecutivi dal 2015 al 2017. Lo stesso è avvenuto per l’eurozona che dal 2012 in poi è diventata esportatrice netta verso il resto mondo.
Ma la ruota gira fintantoché la domanda proveniente dall’estero continua a crescere. Perché quando un’economia si basa troppo sulle esportazioni finisce per diventare eccessivamente dipendente dalle dinamiche degli altri paesi. Cina in primis. Infatti, con l’avvio della guerra commerciale tra Usa e Cina e con il conseguente rallentamento dell’economia cinese, la Germania (primo partner commerciale per la Cina) sta pagando il conto più salato. E se il vagone di testa della locomotiva europea si ferma, tutti gli altri fanno lo stesso.
Dopo la crisi del 2008 il vero grande assente è stata una politica fiscale espansiva. Per mantenere una crescita duratura ma soprattutto diffusa nell’eurozona, non sono bastati 2 trilioni di dollari di cartamoneta stampata dalla BCE. Con l’introduzione del fiscal compact nel 2012, la Commissione Europea ha previsto regole e criteri per monitorare molto più da vicino – ed eventualmente sanzionare – gli Stati Membri che incorrono in deficit e debiti pubblici eccessivi.
Per stare al gioco delle regole europee, i governi degli stati più indebitati sono stati costretti a ridurre i deficit di bilancio e mettere in atto misure di austerità che abbassano la spesa pubblica e aumentano le tasse. Ma costringere i paesi a tirare la cinghia quando l’economia si trova in difficoltà, è come prescrivere la dieta ad un paziente sottopeso e malnutrito.
Di fatto, i governi hanno tolto denaro dall’economia anziché metterne di più in circolazione. La tabella in basso mostra gli avanzi e disavanzi primari dei paesi europei dal 2009 in poi. I valori positivi identificano un bilancio pubblico in avanzo primario, e cioè quando le entrate fiscali sono maggiori rispetto alla spesa pubblica al netto degli interessi. Come si può notare, dal 2013 in poi l’eurozona ha messo in atto politiche di austerità fiscale, registrando mediamente degli avanzi primari.
In Italia, dove il tasso di disoccupazione supera il 10%, quello giovanile sfiora il 30%, e con una povertà che è aumentata da 1 a 6 milioni di individui in 10 anni, esclusa la parentesi del 2009 i governi hanno sempre realizzato politiche fiscali restrittive sottostando ai diktat di Bruxelles.
L’insistenza della Commisione Europea sul fatto che i paesi periferici dell’eurozona continuino a ridurre il deficit di bilancio è assolutamente irragionevole in una situazione di crescita economica molto bassa.
Secondo Ashoka Mody, economista del Fmi, autore del best-seller Eurotradegy: A drama in 9 acts, la combinazione di un debito comune per tutti gli stati membri (“eurobond”) e di trasferimenti fiscali più ampi verso la periferia sarebbe necessaria per evitare il collasso del malato europeo.
Un appuntamento importante sarà quello delle elezioni politiche europee, dove lo spettro dell’ascesa dei partiti populisti può spingere chi governa oggi a cambiare rotta per evitare il rischio di una rottura definitiva degli equilibri già precari dell’eurozona.
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