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Lo spettro della deflazione e le armi di Draghi

"La BCE non si arrenderà davanti alla bassa inflazione, dal momento che i rischi che potrebbero scaturire dall'agire troppo tardi superano i rischi che potrebbero derivare dall'agire troppo presto"

di Alessandro Leozappa - 8 Febbraio 2016 - 4'

Nel suo intervento del 1° febbraio al Parlamento di Strasburgo, il Presidente della Banca Centrale Europe Mario Draghi lo ha detto chiaro: «Ci sono forze nell’economia globale di oggi che cospirano per tenere bassa l’inflazione», ed ha aggiunto che: «queste forze potrebbero far sì che l’inflazione ritorni più lentamente verso il nostro obiettivo. Ma non vi è alcuna ragione per cui esse dovrebbero portare ad una inflazione più bassa in modo permanente», per poi esplicitare la fermezza delle sue intenzioni: «La BCE non si arrenderà davanti alla bassa inflazione, dal momento che i rischi che potrebbero scaturire dall’agire troppo tardi superano i rischi che potrebbero derivare dall’agire troppo presto».

(Il grafico mostra l’andamento dell’inflazione armonizzata storica europea dal 1997 al 2015, Fonte ECB)

In effetti il mandato di Draghi è portare l’inflazione almeno al 2% mentre a gennaio l’inflazione dell’area Euro si è attestata allo 0,4% e questo non scongiura ma anzi conferma la temuta eventualità della deflazione: sarebbe l’innesco della più pericolosa delle spirali economiche, la recessione.

Ma cerchiamo di spiegare meglio attraverso quale meccanismo la riduzione del livello dei prezzi (deflazione) potrebbe condurre ad una recessione, ovverosia ad una crescita economica negativa per due trimestri consecutivi.

Prezzi in calo possono condurre ad aspettative di ulteriori cali futuri e questo spinge i consumatori a rimandare gli acquisti generando di fatto un calo della domanda che si ripercuote immediatamente sulla produttività. Paradossalmente, in una situazione in cui gli acquisti diventano più convenienti la gente non compra, in attesa che la convenienza aumenti. Il calo generalizzato dei consumi conduce ad una riduzione dei margini di redditività e dei fatturati delle aziende, che conseguentemente sono costrette a ridurre le ore di lavoro generando in tal modo disoccupazione.

Ma c’è anche un altro punto di vista da cui valutare l’effetto della deflazione sui consumatori, quello dei mutui e dei prestiti, che in un contesto deflattivo diventano più difficili da rimborsare perché il capitale, anziché svalutarsi – come avverrebbe in presenza di inflazione – si rivaluta, nel senso che il suo ammontare mantiene o aumenta il proprio potere di acquisto mentre i salari, direttamente collegati alla produttività, calano.

La deflazione ha pesanti effetti anche a livello dei Conti Pubblici, perché complica il rispetto del “Patto di stabilità e di crescita” siglato nel 1997 dai paesi membri dell’Unione, che prevede che il disavanzo statale non possa essere superiore al 3% del PIL. In un contesto deflattivo abbiamo visto che il PIL decresce e conseguentemente anche il disavanzo dovrà ridursi. In sintesi, un PIL maggiore consente un maggior disavanzo ed un PIL minore un disavanzo inferiore, posto che il valore della percentuale non può superare il valore fissato del 3%.

Per scongiurare tutto questo Mario Draghi ha già anticipato che il 10 marzo, quando la BCE diffonderà le nuove stime dell’inflazione, dovranno essere prese alcune misure antideflattive. La soluzione della BCE è quella di spingere la domanda immettendo una maggiore liquidità sul mercato, attraverso due strumenti: il cosiddetto “Quantitative easing”, ossia l’acquisto di Titoli da parte della BCE e la probabile riduzione dei tassi sui depositi. Le banche europee depositano il loro denaro presso la BCE e ne ricevano in cambio un tasso di interesse. Se questo si riduce, o diventa addirittura negativo, ecco che le banche sono spinte ad assumersi nuovamente il rischio del credito favorendo così il rilancio dell’economia, o almeno è quello che la BCE spera di ottenere.

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