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Fondi comuni, clienti beffati. Questo il titolo di un recente articolo pubblicato dal settimanale L’Espresso sul tema delle commissioni di performance. Emerge che queste commissioni rappresentano buona parte degli utili di diverse grandi società di gestione italiane, ma non sempre sono applicate in maniera coerente con l’obiettivo. Ecco cosa sono, come funzionano e in quali casi sono un costo ingiusto sulle spalle dei risparmiatori.
Pochi giorni fa ho ricevuto la pubblicità di una nuova tipologia di prodotti derivati, confezionati apposta per un pubblico retail, da parte della mia banca online. I derivati somigliano sempre un po’ ai giochi d’azzardo e questo dipende dalle proprietà stocastiche delle variabili finanziarie sottostanti. Ma in questo caso la componente di azzardo è assolutamente preponderante. Come vedremo, siamo di fronte alla versione ultra-tecnologica di “capita aut navia“, volgarmente … “testa o croce”.
Potrebbe sembrare il solito tema ostico e riservato agli addetti ai lavori ma, purtroppo, quello delle commissioni di collocamento riguarda molto da vicino la gran parte dei risparmiatori che negli ultimi anni hanno acquistato fondi comuni di investimento. Sono infatti l’ultima grande passione di parte dell’industria italiana del risparmio gestito e sono previste da quasi tutti i fondi maggiormente venduti (e non è un caso). Vale la pena provare a capire cosa sono, e soprattutto perché andrebbero evitate accuratamente.
Una delle prime manovre del governo Renzi è stata quella di alzare l’aliquota sulle cosiddette rendite finanziarie dal 20 al 26%. Se il principio che ha ispirato la manovra era condivisibile, la sua messa in pratica è stata, per colpa o per leggerezza, approssimativa, lasciando dietro di sé diverse distorsioni e dando origine ad effetti collaterali forse imprevisti.
L’Italia ama il contante e negli anni della crisi il suo uso di è diffuso ancora di più. Nel frattempo però, a qualche centinaio di chilometri (che sembrano però anni luce), ci sono realtà che già fanno un uso minimo di banconote e monete nella vita di tutti i giorni e si preparano a incentivarne l’uscita dalle abitudini dei cittadini per stimolare l’economia. Ecco cosa succede in Danimarca, in un recente articolo di Quartz.
La SEC, la commissione per la tutela degli investitori e dei mercati, equivalente statunitense della nostra Consob, sta indagando su una delle principali banche americane, JPMorgan, in merito all’uso fatto dalla banca dei propri prodotti nelle gestioni patrimoniali.
La necessità di aumentare gli investimenti degli italiani nell’economia reale è riecheggiata in questi anni nei proclami dei politici e rappresenta effettivamente una grande sfida che, se vinta, potrebbe stimolare l’occupazione e la crescita dell’Italia. Le misure fiscali adottate però in materia di investimenti sono state fino ad oggi parziali, nella migliore delle ipotesi, o spesso in aperto contrasto con questo fine.
Le scelte dei consumatori contribuiscono a cambiare il mercato. Questo succede anche nel mondo degli investimenti, come racconta una recente ricerca sul settore del risparmio gestito americano. Negli ultimi 10 anni gli investitori hanno sottoscritto maggiormente i fondi di investimento con i costi più contenuti, provocando una riduzione dei costi dei prodotti. Lo stesso non è certo accaduto in Italia, anzi, ma non è detto che sia troppo tardi.
Chiudete gli occhi. Pensate a un investitore italiano… se non vi lasciate tentare dall’ideale romanzato del Lupo di Wall Street ma restate con i piedi per terra, probabilmente lo immaginate residente al Nord, benestante, maschio e soprattutto di una certa età. Sareste molto vicini a una corretta fotografia della realtà, una realtà tuttavia che mostra alcuni cenni di cambiamento.
Come funziona la negoziazione dei fondi in Borsa? Come si interpreta il successo dei fondi comuni negli ultimi anni? Quali le sfide per gli investitori nell’attuale contesto macroeconomico?