Too big to fail. Banche e istituzioni finanziarie troppo grandi per fallire. Il termine ci è diventato familiare allo scoppio della crisi nel 2008, quando le grandi banche americane sono state additate come uno dei principali responsabili della crisi e della sua propagazione. Da un rapporto del Fondo Monetario Internazionale (FMI) scopriamo che le istituzioni troppo grandi per fallire sono ancora un problema e che, in Europa, continuano a espandersi.
Le istituzioni troppo grandi, o meglio troppo importanti, per fallire hanno il potere di appropriarsi privatamente dei guadagni ma di spalmare sull’intera società le perdite. Questo meccanismo incoraggia l’assunzione di rischio eccessivo con conseguenze disastrose per la società e le finanze pubbliche. È quanto diceva lo scorso ottobre Mark Carney, presidente del Financial Stability Board e governatore della Banca d’Inghilterra.
Queste banche sono spesso dette sistemiche, dato il forte livello di interconnessione con altre banche e con l’economia. Più che troppo grandi per fallire sarebbe quindi il caso di parlare di troppo importanti per fallire, in quanto anche una banca piccola ma molto interconnessa o politicamente rilevante potrebbe godere di forti garanzie implicite da parte dello Stato. Il fallimento di una banca sistemica ha, infatti, forti conseguenze negative sulla società e l’economia. Questa consapevolezza diffusa aumenta le aspettative di protezione governativa in caso di difficoltà. La garanzia implicita da parte dello Stato si manifesta nel minore rendimento richiesto dagli investitori per prestare denaro a queste istituzioni. Questo si traduce in un minore costo del finanziamento per queste banche rispetto a quelle ritenute non sistemiche, con l’effetto di incentivare il ricorso alla leva finanziaria, la scelta di indebitarsi per aumentare gli investimenti. Si alimenta così un circolo vizioso per cui le banche troppo importanti per fallire diventano sempre più importanti.
Durante la crisi iniziata nel 2008 le banche sistemiche, too big to fail, sono state nell’occhio del ciclone perché responsabili di aver assunto rischi eccessivi con l’obiettivo di massimizzare a tutti i costi i profitti nel breve termine. L’azione della politica e dei regolatori si è quindi rivolta a mettere dei paletti all’attività di queste società, per prevenire costi per la comunità. Il rapporto del fondo monetario ci dice che a oggi, le banche sistemiche sono ancora più grandi e in Europa godono di tutele statali ancora più forti.
La crisi non ha avuto un impatto chiaro sullo stato di salute delle banche sistemiche: se da un lato la regolamentazione ha cercato di contenere il fenomeno, con qualche risultato, le acquisizioni che si sono viste negli anni hanno aumentato la concentrazione del settore. Il grafico evidenzia l’andamento delle attività possedute dal sistema bancario in rapporto al Prodotto Interno Lordo (in rosso) e il numero di banche presenti (in verde). Si nota come se il numero di banche è andato diminuendo l’ammontare degli attivi è ancora a livelli importanti, soprattutto in Europa, dove si è riavvicinato ai livelli pre-crisi, a quota 350% del PIL.
Il dato più originale e preoccupante che emerge dal rapporto dell’FMI è tuttavia la quantificazione del sussidio implicito degli Stati alle banche e istituzioni sistemiche. Lo studio stima che in Europa questo supporto sia quantificabile in un vantaggio nel costo di finanziamento fino a 60/90 punti base rispetto ai concorrenti e, in termini monetari, rappresenti nel biennio 2011-12 tra i 65 e i 200 miliardi di euro, a seconda del metodo di stima.
Non vi è una soluzione semplice al problema perché effettivamente il fallimento di una banca sistemica ha conseguenze molto severe non solo sugli azionisti e creditori della stessa ma su tutto il tessuto economico. Qualsiasi scorciatoia populista è quindi pericolosa tanto quanto la situazione attuale. L’esperienza storica suggerisce che c’è un margine d’azione attraverso la regolamentazione per limitare l’espansione incontrollata delle banche sistemiche, che generano grandi guadagni privati e enormi costi pubblici. Tale regolamentazione ha però bisogno soprattutto di un forte supporto politico, e qui è proprio il punto cruciale della questione. C’è in Europa (e altrove) la volontà politica diffusa di porre un freno a questo fenomeno? Probabilmente no, ma non è detto che contiunerà ad essere così se noi per primi ci faremo portatori di questa esigenza, dal momento che siamo proprio noi, cittadini e contribuenti, a pagarne il conto.
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