“Too big to fail” (troppo grandi per fallire) è una frase che abbiamo imparato a conoscere dall’ultima crisi finanziaria. Si riferisce all’idea che alcune grandi banche sono così importanti che un loro fallimento porterebbe al tracollo dell’intero sistema economico.
Quello che ci chiediamo in questo articolo è se l’affermazione “too big to fail” possa valere ancora oggi, ma soprattutto capire qual è stato il costo pagato dai contribuenti per salvare le banche dal fallimento nell’ultimo decennio.
Too big to fail e la crisi finanziaria
Il termine “too big to fail” è stato per la prima volta utilizzato nel 2008, quando il governo statunitense sborsò 700miliardi di dollari per salvare importanti istituzioni finanziarie. I salvataggi più eclatanti furono fatti per la compagnia assicurativa AIG e per i giganti dei mutui immobiliari Fannie Mae and Freddie Mac.
Anche alcune famose banche d’investimento come Goldman Sachs e Morgan Stanley erano state definite “too big to fail”.
Quando la crisi arrivò in Europa, i governi nazionali e le istituzioni europee decisero di salvare (bail-out) le banche “too big to fail” per evitare il collasso dell’economia dell’eurozona.
Secondo la Commissione Europea, circa 750 miliardi di euro sono stati immessi nel settore bancario dai governi nazionali. A questi si aggiungono circa 1.200 miliardi di garanzie statali sulle passività delle banche.
Come avviene un salvataggio bancario ad opera dello stato?
Ci sono diverse modalità che un governo può adottare per salvare le banche:
Assunzione di garanzie: gli stati possono garantire i depositi bancari, le obbligazioni e le altre passività delle banche. In questo caso, l’aiuto di stato si manifesta solo se necessario per ripagare i creditori di una banca.
Partecipazione azionaria: i governi possono diventare azionisti delle banche attraverso l’acquisto di azioni già emesse o tramite aumenti di capitale. Tra il 2008 e il 2014, diciannove Stati Membri hanno adottato questa misura investendo in totale 453 miliardi di euro.
Creazione di una “bad bank”: un’entità separata viene creata dal governo per destinare i crediti deteriorati (Npl) e gli asset tossici di una banca. Undici Stati Membri hanno istituito una “bad bank” tra il 2008 e il 2014 con una spesa di 188,5 miliardi di euro.
Nazionalizzazione della banca: il governo acquisisce la maggioranza delle azioni di una banca e ne esercita il controllo.
Il bail-in vale anche per le grandi banche?
Dal 2015, le cose (almeno in teoria) sarebbero dovute cambiare. L’introduzione della Bank Recovery and Resolution Directive (BRRD) ha sancito la nascita del cosiddetto “bail-in”, escludendo il ricorso ad un “bail-out” da parte dello stato.
Il bail-in prevede di coinvolgere i creditori nel salvataggio di una banca, ordinati in base all’investimento più rischioso. Prima intervengono gli azionisti, poi gli obbligazionisti ed infine i depositanti sopra i 100mila euro.
Fino ad oggi, il bail-in è stato integralmente applicato in solo caso: il fallimento della banca spagnola Banco Popular nel giugno 2017.
In Italia, come al solito, si sono fatti due pesi e due misure. Le piccole banche (Etruria, Marche, CariChieti e CariFerrara) sono fallite senza troppi intoppi, le grandi (Mps e Venete) hanno ricevuto ingenti e generosi interventi dallo Stato.
Quanto sono costati i salvataggi bancari?
Ad ottobre 2017, il costo pagato dai contribuenti per salvare le banche europee ammonta a 218 miliardi di euro. Si tratta delle perdite registrate dagli Stati Membri nel tentativo di salvare le banche attraverso una delle quattro modalità che abbiamo visto prima. Queste somme sono state per lo più finanziate attraverso emissioni di debito pubblico e pertanto ricadono direttamente sui contribuenti.
Per avere un’idea dell’ordine di grandezza di cui stiamo parlando abbiamo preparato questa infografica:
Il primo passo per avere un sistema bancario più efficiente e socialmente sostenibile è quello di ridurre l’onere dei contribuenti nei salvataggi delle banche.
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