In questi giorni si parla molto di Brexit, e se ne parlerà sempre più fino al 23 giugno, giorno in cui un referendum tra i sudditi di sua maestà britannica potrebbe sancire l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea.
La parola ora spetta ai cittadini britannici, ma il 19 febbraio scorso invece, per avere l’assenso del premier David Cameron alla permanenza nell’Unione, i leader europei hanno firmato un accordo che sancisce per il Regno Unito un vero e proprio “statuto speciale”, che prevede come punto principale l’esenzione di Londra dal concetto di «ever closer union» («Unione sempre più stretta»), che è poi il principio cardine dell’Unione Europea sin dal Trattato di Roma del 1957.
Secondo quanto siglato a Bruxelles, la Gran Bretagna non farà mai parte di un esercito europeo, non sarà coinvolta nei salvataggi finanziari e manterrà la supervisione sulle proprie banche, non parteciperà all’euro ed ai confini aperti, pur esercitando appieno la propria influenza nelle decisioni di suo interesse e conservando la potestà di proporre iniziative.
Ma quale di queste è la posta in gioco più importante? Per Cameron e per la Gran Bretagna era ed è fondamentale il mantenimento del primato della City londinese come centro dei servizi finanziari europei, un primato che l’inserimento del sistema bancario del Paese all’interno dell’Unione bancaria europea avrebbe compromesso. Per comprendere questo tema occorre partire da un dato importante: le banche inglesi hanno più debiti e crediti in euro di quanti non ne abbiano in sterline e questo significa che l’esposizione alle decisioni prese dalla Banca Centrale Europea è altissima.
La maggior parte dei servizi finanziari forniti dalla City riguarda attività transfrontaliere con l’eurozona, e per fare questo occorrono due cose, che con il trattato siglato il 19 febbraio sono state ottenute: da un lato un mercato unico in tutta l’unione cui vendere i propri servizi e dall’altro abbastanza autonomia da poter rendere questo servizi unici, in termini di costo e di facilità di esecuzione.
Non essere vincolati alla vigilanza bancaria europea è certamente un enorme vantaggio. Flessibilità e basso livello di regolamentazione sono due armi efficaci per attirare capitali stranieri, pur avendo ben presente il rischio che un domani l’Eurozona potrebbe essere percepita come finanziariamente più sicura e questo attuale vantaggio potrebbe mutarsi in un gigantesco svantaggio.
Passando dalla finanza all’economia, la maggioranza degli economisti britannici è convinta che un’eventuale uscita dall’UE peggiorerebbe l’economia nazionale, riducendo le esportazioni e rendendo le importazioni più onerose. È stato calcolato che un isolamento commerciale potrebbe produrre gravi conseguenze sul Pil, riducendolo del 4% nel prossimo triennio.
D’altro canto la Brexit comporterebbe una maggiore contribuzione di tutti gli stati membri al budget dell’Unione, ma in generale sarebbe la Gran Bretagna a patire le maggiori conseguenze, e non è detto che l’uscita di un membro perennemente “dissidente” non possa consentire una più spedita integrazione sul fronte della difesa e del sistema fiscale.