Fondi comuni, clienti beffati. Questo il titolo di un recente articolo pubblicato dal settimanale L’Espresso sul tema delle commissioni di performance. Emerge che queste commissioni rappresentano buona parte degli utili di diverse grandi società di gestione italiane, ma non sempre sono applicate in maniera coerente con l’obiettivo. Ecco cosa sono, come funzionano e in quali casi sono un costo ingiusto sulle spalle dei risparmiatori.
Partiamo da una provocazione. In diversi casi è (anche) interesse del risparmiatore che siano previste commissioni di performance, chiamate anche di incentivo. Un risparmiatore affida a un gestore i propri risparmi proprio perché questi li gestisca attivamente, compiendo giorno per giorno scelte di investimento che creino valore e, nel medio periodo, facciano meglio del mercato di riferimento. Se non ci fosse l’esigenza di ottenere un risultato migliore del mercato, tanto varrebbe sottoscrivere un fondo a gestione passiva a costi inferiori. È quindi interesse del sottoscrittore che il gestore faccia del suo meglio per far crescere il valore del patrimonio del primo, assumendo o meno rischio a seconda delle opportunità che vede sui mercati. Non è detto però che il gestore abbia la stessa necessità. Questi potrebbe benissimo, una volta raccolti i capitali, investirli seguendo la media dei mercati, senza quindi portare un reale valore aggiunto ai clienti, evitando solo che i propri fondi abbiano andamenti diversi dalla media ma incassando le commissioni annue (la somma di commissioni di gestione e di collocamento prelevate annualmente dal fondo, indipendentemente dai risultati ottenuti). A differenza di queste ultime, le commissioni di performance sono pagate solo quando il fondo guadagna e in misura proporzionale alla crescita del capitale dei sottoscrittori. Dal punto di vista del gestore, la differenza tra commissione di performance e spese correnti equivale a quella tra bonus e stipendio per un lavoratore. Sono quindi un chiaro incentivo monetario per la società di gestione non solo ad attrarre capitali ma anche a farli fruttare più del mercato. Dal punto di vista del risparmiatore, quindi, le commissioni di performance rappresentano l’unico incentivo che chiaramente allinea l’interesse del gestore al proprio.
Dove sta quindi lo scandalo raccontato da L’Espresso? Come spesso accade, il diavolo è nei dettagli e il dettaglio in questo caso è definire quale sia un risultato positivo di in fondo e dunque in quali circostanze si possano prelevare commissioni di performance. Secondo la normativa di Banca d’Italia il periodo rilevante per il calcolo e prelievo delle commissioni di incentivo non può essere inferiore ai 12 mesi. Per chiarire la portata di questa specifica è utile fare un semplice esempio ipotizzando l’andamento di un fondo comune nel tempo.
Immaginiamo un orizzonte temporale di 2 anni e un calcolo delle commissioni di performance ogni anno, poniamo a gennaio. Durante il primo anno, a fronte di un risultato del fondo negativo non saranno prelevate commissioni di performance. Alla fine del secondo, però, il fondo preleverà una commissione di performance sull’incremento del valore del fondo dal gennaio precedente. Questo metodo ha dei limiti, in quanto un risparmiatore paga commissioni anche sulla ripresa successiva ad una perdita di valore, ma ha anche i suoi lati positivi. Vediamo infatti cosa succederebbe se la normativa di Banca d’Italia fosse disattesa e consideriamo un fondo che calcola e preleva commissioni di incentivo su orizzonti inferiori all’anno, poniamo ogni mese.
In questo modo le occasioni di prelievo si moltiplicano enormemente ma non corrispondono a una reale creazione di valore per il sottoscrittore. Nello stesso esempio di prima, se le commissioni di performance sono calcolate mensilmente, il sottoscrittore si trova a pagare più volte per lo stesso incremento di valore del proprio patrimonio.
Come abbiamo visto, questa impostazione è espressamente vietata da Banca d’Italia, tramite una normativa a cui devono sottostare i regolamenti di tutti i fondi comuni di diritto italiano. Diverse SGR italiane hanno sviluppato però delle succursali estere, tipicamente lussemburghesi o irlandesi, grazie alle quali riescono a proporre ai risparmiatori italiani fondi che non devono sottostare alle regole di Banca d’Italia. È proprio questo il fenomeno che denuncia L’Espresso, e qualche altro media prima di lui.
Quello che può fare un risparmiatore per evitare brutte sorprese e, nella fattispecie, pagare delle commissioni di incentivo che, per loro costruzione, non corrispondono necessariamente a un buon risultato di lungo periodo, è informarsi sulla periodicità del calcolo delle commissioni di performance o nel dubbio preferire fondi di diritto italiano che devono sottostare, da questo punto di vista, a una normativa più tutelante.
L’ottimo però sarebbe, indipendentemente dalla nazionalità del fondo, scegliere un prodotto che calcoli le commissioni di incentivo secondo il metodo dell’high-water mark senza reset. In estrema sintesi, il metodo dell’high-water mark, letteralmente “segno dell’acqua alta” prevede che un fondo prelevi commissioni di performance solo quando il valore della quota supera i massimi di sempre (il calcolo varia leggermente nel caso di fondi con benchmark, ma la sostanza non cambia). Riprendendo l’esempio, vediamo cosa accade quando il sottoscrittore paga commissioni di incentivo calcolate in questo modo.
Il risparmiatore paga solo quando il fondo guadagna nel lungo periodo. Se, infatti, a un rialzo segue una riduzione del valore del patrimonio, questi non pagherà commissioni fino a quando non sarà superato il massimo precedente. L’high-water mark (senza reset) è il metodo che meglio allinea l’interesse del gestore a quello del cliente, perché fornisce un incentivo a cercare una performance crescente nel lungo periodo.