La necessità di aumentare gli investimenti degli italiani nell’economia reale è riecheggiata in questi anni nei proclami dei politici e rappresenta effettivamente una grande sfida che, se vinta, potrebbe stimolare l’occupazione e la crescita dell’Italia. Le misure fiscali adottate però in materia di investimenti sono state fino ad oggi parziali, nella migliore delle ipotesi, o spesso in aperto contrasto con questo fine.
Sono tre oggi le grandi distorsioni fiscali che limitano l’efficiente allocazione dei risparmi nel sistema produttivo e penalizzano gli investimenti in capitale di rischio e verso strumenti più evoluti e redditizi per i risparmiatori.
I redditi da capitale sono tassati al 26%, ma non se sono generati da titoli di Stato o dai Buoni Fruttiferi Postali. Investendo in azioni e obbligazioni societarie, l’eventuale guadagno ottenuto dalla vendita o dal flusso di dividendi e cedole è tassato al 26%. Se però lo stesso guadagno proviene da un titolo di Stato (di un qualsiasi paese della White list) o di un Buono Fruttifero Postale la tassazione è pari al 12,5%, meno della metà.
L’imposta di bollo annuale (patrimonialina) è pari allo 0,2% del capitale investito, con diverse eccezioni. A differenza dell’imposta sui redditi da capitale, che si paga quando si realizza un guadagno, l’imposta di bollo è pagata annualmente sul valore dell’investimento, indipendentemente dal guadagno o dalla perdita ottenuti, da qui il carattere di patrimoniale. Ogni anno si paga allo Stato lo 0,2% del valore del capitale. Sotto i 5.000 euro, sono esenti dall’imposta di bollo i conti correnti e i buoni fruttiferi postali, mentre oltre questa cifra sui conti correnti l’imposta è pari a un fisso di 34,2 euro annui. Il risultato è che un investimento di 100.000€ in azioni, in obbligazioni o in fondi comuni paga un’imposta di bollo pari a 200 euro all’anno, contro i 34,2€ che si pagherebbero sul conto corrente. All’aumentare del capitale questa forbice continua ad allargarsi, dando luogo a distorsioni e possibili arbitraggi.
La Tobin Tax, tassa sulle transazioni finanziarie, si applica alla compravendita di azioni di società italiane da parte di risparmiatori italiani. Ogni transazione effettuata su una società di media/grande dimensione, di durata superiore alla giornata, è tassata con un’aliquota pari allo 0,1% del valore dell’operazione. La tassa non colpisce però i titoli stranieri e gli investitori stranieri in azioni italiane.
Il risultato congiunto di queste tre norme è quello di spingere gli investitori verso strumenti caratterizzati da un rendimento molto contenuto, da una struttura poco trasparente (come i conti correnti) e da una bassa capacità di diversificazione. Sul fronte macro, l’attuale tassazione allontana la ricchezza finanziaria della famiglie dagli investimenti produttivi, quelli a sostegno del tessuto economico, per indirizzarla invece verso la rendita dei titoli di Stato o verso la raccolta bancaria e delle Poste.
Recentemente, interpellato su questi tre punti, il presidente del consiglio Matteo Renzi ha rivendicato la scelta di alzare le aliquote dal 20% al 26% sui redditi finanziari (scelta peraltro non contestata) e ha lasciato invece la porta aperta sui “limiti” sollevati.
Un auspicato intervento correttivo su questi tre punti si limiterebbe a raddrizzare le storture del sistema attuale. Una riforma della tassazione in materia di investimenti potrebbe invece andare anche nella più ambiziosa direzione di incentivare il risparmio e l’investimento, favorendo sia l’accumulazione di capitali sia il loro impiego nell’economia. È interessante in quest’ottica l’esempio inglese degli ISA (Individual Savings Account). Ogni anno il capitale risparmiato e investito, fino a una certa soglia (pari per il 2015 a oltre 15.000 sterline), è totalmente esentasse se investito in strumenti monetari, mentre soggetto a una tassazione molto agevolata se investito in azioni, obbligazioni o fondi comuni. Si incoraggia in questo modo la formazione del piccolo e medio risparmio, si aumentano i rendimenti netti dei risparmiatori e si incoraggia anche la formazione di capitale di rischio (direttamente tramite l’acquisto di azioni e obbligazioni o tramite strumenti diversificati come i fondi comuni) che porta finanziamenti all’economia e maggiori rendimenti potenziali ai risparmiatori.
Decisamente, ci sono ampissimi margini di miglioramento nel rapporto tra fisco, risparmi e investimenti nel nostro paese. Speriamo che dalla presa di coscienza del premier si passi presto ai fatti.