Un gigante istituzionale del risparmio gestito esce dai propri investimenti in hedge fund. La decisione insegna tanto anche al piccolo risparmiatore, anche se non ha mai investito in fondi speculativi.
Il più grande fondo pensione statunitense, Calpers (il California public employees’ retirement system) con 300 miliardi di dollari in gestione, ha annunciato l’intenzione di uscire dai propri investimenti in hedge fund, come si legge nella nota, nello sforzo di ridurre la complessità e i costi del proprio portafoglio. Calpers non è l’unico investitore istituzionale ad aver percorso questa scelta e comunque a esprimere perplessità sui costi degli hedge fund in rapporto ai risultati ottenuti. Nei giorni scorsi un responsabile di un influente fondo pensione britannico aveva definito ingiustificabile la struttura commissionale tipica di questi fondi.
Con il termine hedge fund, o fondi speculativi o alternativi, si indica un ampio insieme di fondi di investimento che applicano strategie non convenzionali, che esulano insomma dal semplice acquisto di titoli azionari e obbligazionari. Un tratto comune degli hedge fund è quello di ricercare un rendimento positivo indipendentemente dalle condizioni del mercato in cui si investe e con una volatilità contenuta.
Pur godendo di una pessima fama sui media, i fondi hedge hanno visto una forte crescita delle masse gestite a livello globale, attraendo soprattutto patrimoni di investitori istituzionali, fino ad oggi. In Italia i fondi hedge hanno visto una rapida crescita negli ultimi anni ma, con un patrimonio gestito di 7,2 miliardi di euro, rimangono una realtà molto limitata all’interno del settore.
Calpers fa sapere che l’investimento in hedge fund non è coerente con la propria politica di gestione che si prefigge di assumere rischio solo si ha la forte convinzione che sia remunerato e di gestire con efficienza i costi in quanto impattano sui risultati. Al di là della decisione a cui è giunta la direzione di Calpers, il gigante degli investimenti regala una preziosa lezione ad ogni investitore: i due principi di cui sopra dovrebbero essere fatti propri e considerati attentamente nell’ambito di qualsiasi scelta di investimento.
La vicenda in sé potrebbe sembrare di scarsa importanza per il risparmiatore italiano, tuttavia suggerisce alcuni spunti di riflessione particolarmente rilevanti di cui l’investitore e gli operatori del settore dovrebbero fare tesoro.
Crolla miseramente l’illusione del rendimento in ogni circostanza di mercato e con volatilità contenuta. La maggior attrattiva verso gli hedge fund è rappresentata proprio dalla promessa di ottenere un rendimento positivo anche nelle situazioni di crollo del mercato, mantenendo una volatilità contenuta. L’esperienza di questi anni ha distrutto miseramente questa illusione smentendo ancora una volta, se ce ne fosse stato bisogno, il paradigma del rendimento comunque e a basso rischio. La formula che sembrava troppo bella per essere vera si è rivelata effettivamente tale. Gli hedge fund rimangono potenzialmente uno strumento utile a fronte di alcune particolari esigenze di diversificazione o fortemente speculative, ma non sono certo lo strumento infallibile che ha ingolosito gli investitori perché sui mercati finanziari lo strumento miracoloso non esiste, ed è bene ricordarselo per evitare brutte sorprese e fregature.
La complessità non è una qualità per uno strumento finanziario. Se questo si è dimostrato essere vero per un investitore evoluto e con un patrimonio di diverse centinaia di miliardi, lo è a maggior ragione per l’investitore privato. I risultati degli ultimi anni hanno evidenziato come solo una piccola parte dei fondi hedge abbia riportato un risultato migliore del mercato, malgrado le strategie messe in atto e i modelli matematici utilizzati.
Una maggiore attenzione ai costi della gestione rappresenta una minaccia per chi vende una gestione attiva? Probabilmente sì, e per fortuna. Il tema dei costi della gestione attiva va ovviamente oltre i confini dei fondi hedge e coinvolge tutti i fondi comuni di investimento. Per capire la rilevanza della questione bisogna tenere conto che in Italia non è assolutamente detto che chi venda una gestione attiva la faccia davvero. Spesso i gestori si limitano ad attuare una gestione quasi-passiva, che replica in larga misura l’indice di riferimento senza tentare effettivamente di batterlo, con l’obiettivo di assumere il minor rischio possibile. Per questi prodotti la crescente attenzione ai costi rappresenta una minaccia perché i risparmiatori potrebbero interrogarsi sul perché pagare una commissione di gestione più elevata per un lavoro che non c’è, quando potrebbero comperare a basso costo un fondo a gestione passiva che replichi lo stesso indice. Per tutti quei gestori invece che compiono effettivamente una gestione attiva, investendo dove si vedono la migliore remunerazione del rischio, indipendentemente dal fatto che questi titoli siano parte del benchmark o meno, la crescente attenzione ai costi è sicuramente una dinamica auspicabile. Si fa infatti chiarezza sul servizio per cui si sta pagando e si mette l’investitore nelle condizioni di fare una semplice valutazione qualità/prezzo. Si favoriscono in questo modo i gestori che forniscono un effettivo servizio agli investitori, paganti, mentre vengono esclusi dal mercato i prodotti che risulteranno troppo cari a fronte di una gestione che si limita a replicare un indice.