Il paese con uno dei tassi di risparmio delle famiglie tra i più elevati al mondo è anche tra quelli in cui le imprese hanno le maggiori difficoltà a reperire capitali. Il mancato incontro di questi due mondi, che penalizza sia il sistema produttivo sia la ricchezza finanziaria delle famiglie, è il frutto di una scarsa attenzione finanziaria e di specifiche misure di politica fiscale.
I prestiti delle banche al sistema produttivo stentano a ripartire, anzi. I dati pubblicati recentemente da Eurostat dicono che nel 2013 i prestiti al settore manifatturiero si sono ridotti del 6,1 mentre i tassi a cui le imprese si indebitano rimangono in media superiori di 150 punti base rispetto a quelli pagati dalle imprese tedesche. Tale situazione è il risultato di condizioni restrittive da parte delle banche nell’erogazione dei credit e di una domanda fiacca da parte delle imprese.
La riduzione dell’accesso al credito dovuta alla contrazione dei prestiti dal canale bancario è stata attenuata dal ricorso al mercato dei capitali. Ciò non è però avvenuto in Italia dove l’accesso al mercato dei capitali è estremamente sottile. I dati di Confindustria mostrano che nel 2010 si contavano meno di 5 imprese quotate per milione di abitanti, contro le 7 della Germania, le 14 di Francia e USA e le 33 del Regno Unito. In termini di capitalizzazione la Borsa valeva il 15% del PIL nazionale, meno della metà di quanto si osserva negli altri Stati considerati. Il mercato dei capitali in Italia è appannaggio di poche grandi società, mentre la gran parte del tessuto produttivo è composta da imprese piccole, spesso a conduzione familiare, attive solo sul mercato domestico e dipendenti unicamente dal canale bancario come fonte di finanziamento. Negli anni scorsi sono state varate misure volte a favorire l’accesso al mercato dei capitali, in particolare i mini-bond, che non hanno però ancora dato risultati tangibili.
La contrazione dei prestiti è tutt’altro che una novità così come la mancanza di fonti di finanziamento diverse dal sistema bancario. Paradossale è tuttavia il fatto che questa situazione si verifichi in Italia, paese tradizionalmente caratterizzato da un elevato tasso di risparmio e in cui le famiglie hanno in media mantenuto un livello di ricchezza superiore a molti altri paesi colpiti dalla crisi. La finanza viene meno al proprio compito fondamentale di collegare settori in surplus di risorse finanziarie (le famiglie) e settori che necessitano di risorse (il sistema produttivo). Le famiglie, investendo, prestano i capitali di cui non hanno immediata necessità, per proteggerli dall’inflazione e alla ricerca di un rendimento, e le imprese pagano in cambio interessi o dividendi e utilizzano quel capitale per finanziare i propri investimenti e crescere.
La ricchezza finanziaria degli italiani non trova sbocco nel sistema produttivo. Questa si concentra invece sui titoli di Stato a breve scadenza (anche con gli attuali tassi ai minimi e senza una necessaria esigenza della disponibilità nel brevissimo termine), sui conti deposito, sui buoni fruttiferi postali, se non addirittura sui conti correnti. Dal punto di vista del risparmiatore questi strumenti, caratterizzati da una bassa propensione al rischio percepita, sono spesso inefficienti sotto il profilo del rendimento atteso. Dal punto di vista dell’economia nel suo complesso queste risorse che alimentano la rendita degli Stati o ingrassano i bilanci delle banche, rappresentano un enorme freno alla crescita perché riducono i capitali a disposizione del sistema produttivo, aumentando i costi di finanziamento e riducendo le opportunità di investimento e ripresa. Questa disfunzione è il risultato combinato di una scarsa cultura finanziaria diffusa e di una precisa impostazione fiscale. Entrambi i piani sono cruciali ma il secondo è quello su cui sarebbe più facile intervenire se ci fosse volontà politica. Di sicuro negli ultimi anni è stato inasprito un sistema fiscale che drena risorse dalla ricchezza delle famiglie, privandole al settore produttivo a beneficio della macchina pubblica. Per invertire questa dinamica è necessario abbassare e uniformare le aliquote sulle rendite finanziarie, la cui impostazione oggi penalizza l’accesso delle imprese ai capitali, e abolire la Tobin tax, che applicandosi solo alle azioni domestiche le penalizza in favore degli emittenti esteri.
La ricchezza delle famiglie è stata da molti definita, non a sproposito, il bancomat dello Stato, in quanto lì sono state reperite negli ultimi anni risorse in diverse forme. È in effetti corretto guardare al risparmio privato per uscire dalla crisi ma è necessario fare politiche fiscali che si muovano nella direzione opposta, ossia che ne favoriscano, tramite l’investimento, il contatto con il sistema produttivo che di quei capitali ha un disperato bisogno.