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Attività finanziarie, tasse e incoerenza pubblica

Le imprese scelgono se finanziarsi in banca o sul mercato, ma questo non accade in Italia. Qui la banca rappresenta quasi l’unica fonte di credito, soprattutto per le imprese medie e piccole. Il Governo ha puntato il dito contro questo modello, ma, nei fatti, cosa sta facendo?

di Lorenzo Saggiorato - 24 Aprile 2014 - 7'

Le imprese scelgono se finanziarsi in banca o sul mercato, ma questo non accade in Italia. Qui la banca rappresenta quasi l’unica fonte di credito, soprattutto per le imprese medie e piccole. Il Governo ha puntato il dito contro questo modello, ma, nei fatti, cosa sta facendo?

Il Documento di Economia e Finanza recentemente presentato dal Governo contiene nelle prime pagine un passaggio di grande rilevanza e coraggio che parla di “necessario superamento di un sistema imprenditoriale fortemente “banco-centrico”, grazie alla messa a disposizione e al rafforzamento di forme di finanziamento alternative al credito per le imprese, in particolare per quelle di piccole e medie dimensioni”. È un’affermazione coraggiosa perché sfida una caratteristica portante della nostra economia.

Per crescere un’impresa ha bisogno di investire in progetti che creano valore. Tali progetti sono solitamente finanziati con un combinato di risorse interne, capitale proprio e utili, e esterne, dove queste ultime sono rappresentate principalmente da crediti erogati dal settore bancario oppure da capitali raccolti sul mercato sotto forma di azioni e obbligazioni. In Italia il settore bancario rappresenta la prima fonte di finanziamento delle imprese: nel decennio 2001-2011 i crediti bancari rappresentavano quasi il 60% dei debiti delle imprese italiane. Il dato è in aumento rispetto al passato e soprattutto elevato rispetto a molte altre economie sviluppate. L’eccessiva dipendenza dal settore bancario è emersa prepotentemente in tutta la sua criticità negli anni recenti, quando le banche, per far fronte alla fragilità dei propri bilanci, hanno aumentato gli interessi richiesti per concedere prestiti.

Abbiamo quindi da un lato un settore produttivo che ha un disperato bisogno di finanziarsi, anche al di fuori del sistema bancario, per stimolare crescita e occupazione e dall’altro le famiglie che, pur messe sotto pressione dalla crisi, dispongono mediamente di un buon livello di ricchezza accumulata. La soluzione al problema sembra quindi già delineata. Si tratta di fare confluire parte della ricchezza dei risparmiatori nel sistema produttivo, con benefici di medio e lungo termine per tutti i soggetti. Stiamo tralasciando però il ruolo giocato da un terzo attore, estremamente indebitato e imbrigliato da forti interessi di categoria. Questo terzo attore, lo Stato ovviamente, fa anche le regole del gioco, e, decisamente, le regole introdotte negli ultimi mesi vanno in direzione ben diversa da quella individuata nella premessa del documento programmatico del Governo.

La politica fiscale ha l’effetto diretto di recuperare risorse per lo Stato e quello indiretto di influenzare le scelte dei cittadini. Essendo tutti ben consapevoli che la coperta sia corta è legittimo ipotizzare che a un (indispensabile) alleggerimento degli oneri fiscali sul lavoro possa corrispondere un aumento delle imposte sui redditi da capitale. Ciò detto, è opportuno fare alcune precisazioni di carattere molto generale: diverso è tassare la ricchezza in sé, già tassata sotto forma di reddito, come fanno la patrimoniale e l’imposta di bollo, o i redditi da capitale, proventi ottenuti dagli investimenti effettuati. Inoltre non si può sottovalutare l’effetto distorsivo indotto dalle disparità di trattamento fiscale, derivante da un patchwork di eccezioni, esenzioni e favori.

Come già si è osservato diverse volte, la disciplina fiscale sugli strumenti finanziari è molto disorganica e frammentaria. Nel decidere come impiegare i propri risparmi, il cittadino terrà conto inevitabilmente del trattamento fiscale perché determinante per il beneficio effettivo. L’imposta di bollo incentiva il ricorso a conti correnti bancari e postali (e ai Buoni fruttiferi postali), per cui prevede un trattamento di favore, mentre la tassazione sui redditi da capitale introduce un enorme vantaggio per i titoli statali (e delle Poste) rispetto agli strumenti finanziari del settore privato. Su questi ultimi si paga, infatti, un’aliquota del 26%, più che doppia rispetto a quella applicata ai titoli di Stato nazionali ed esteri, del 12,5%. A parità di rendimento lordo atteso un risparmiatore sceglierà il prodotto con il trattamento fiscale più amichevole: piuttosto che investire in un’impresa italiana, acquistando un’obbligazione, si preferirà un BTp o, perché no, un titolo di Stato sudafricano.

Dal punto di vista di un’impresa, la disparità di trattamento fiscale fa sì che questa sia costretta a offrire un rendimento lordo, un tasso di interesse, più elevato ai propri investitori per competere con il settore pubblico. In altre parole il suo debito diventa più costoso. Ritornando quindi alla scelta di finanziamento dell’impresa, l’aliquota differenziata e il suo recente incremento aumentano la dipendenza dell’impresa dal credito bancario, in quanto le alternative sono rese più costose.

In questo esempio si è ipotizzato che l’azienda possa scegliere liberamente se finanziarsi in banca o sul mercato, scegliendo solo in base al costo del finanziamento. Il panorama produttivo italiano ci dice però che questo è un caso estremamente raro. Il numero di imprese quotate in Borsa, e quindi con accesso diretto al mercato dei capitali è estremamente contenuto e questo è utilizzato quasi esclusivamente da società di grandi dimensioni. I fattori che determinano questa situazione sono ovviamente molteplici, pesano evidentemente la diffusione della struttura a controllo familiare e la dimensione ridotta. Tuttavia la scelta di quotarsi sarebbe alla portata di molte più imprese di quelle che si trovano sul mercato, come osservato recentemente da un alto dirigente di Banca d’Italia. Se le imprese ritenessero che, una volta sostenuti i costi per entrare sul mercato, queste avessero accesso a forme di finanziamento più economiche, la situazione potrebbe cambiare.

L’obiettivo dichiarato dal Governo è encomiabile, ambizioso e fondamentale, tuttavia nei fatti lo stesso Governo si è mosso nella direzione opposta. Dietro allo stereotipo della massaia che compra solo gli amati BOT, mentre l’avido speculatore acquista azioni, si è portata avanti una politica fiscale che favorisce ancora una volta il settore bancario e le Poste. Per innescare un processo che porterà il sistema produttivo italiano ad essere meno dipendente dalle banche per soddisfare il proprio fabbisogno finanziario, bisogna necessariamente incentivare per le imprese il ricorso al mercato e la scelta a quotarsi e la partecipazione dei risparmiatori al mercato dei capitali. Esattamente il contrario di quanto fatto finora.

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