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Lo Stato vive di rendita

Dal 2011, con l’insediamento del Governo Monti, la politica ed il fisco hanno scoperto la ricchezza degli italiani come possibile fonte di entrate fiscali. Negli ultimi tre anni sono aumentate le imposte sulla casa e sono state istituite imposte sulla ricchezza finanziaria; è stata rivista la tassazione degli affitti ed è stata aumentata la tassazione di (alcune) rendite finanziarie.

di Alberto Foà - 25 Marzo 2014 - 10'

Dal 2011, con l’insediamento del Governo Monti, la politica ed il fisco hanno scoperto la ricchezza degli italiani come possibile fonte di entrate fiscali. Negli ultimi tre anni sono aumentate le imposte sulla casa e sono state istituite imposte sulla ricchezza finanziaria; è stata rivista la tassazione degli affitti ed è stata aumentata la tassazione di (alcune) rendite finanziarie.

Alcuni esponenti del nuovo governo hanno immediatamente messo sul piatto la tassazione delle rendite finanziarie.

Sarà bene, a questo punto, fare un po’ di chiarezza per tentare di evitare il solito accavallarsi di norme che producono effetti, a volte, indesiderati se non addirittura paradossali o contradditori.

Innanzitutto, vanno distinte le grandezze di stock dalle grandezze di flusso: la ricchezza è uno stock, il reddito è un flusso. La ricchezza (stock) rimane invariata nel tempo se non viene, di anno in anno, alimentata da nuovi risparmi o depauperata dall’eccesso di spesa rispetto al reddito; il reddito (flusso) viene prodotto ogni anno. Si può essere molto ricchi ma avere un reddito basso o nullo (e in questo caso, il ricco vivrà depauperando la ricchezza); si può godere di un reddito elevato ma non avere ricchezze accumulate (il percettore di un reddito elevato che consuma tutto non risparmia e non accumula ricchezza).

La ricchezza delle famiglie è il frutto dei risparmi accumulati, cioè di quella parte del reddito netto che le famiglie hanno messo da parte nel tempo. Il risparmio è la parte del reddito che rimane alle famiglie dopo avere pagato le tasse e soddisfatto le loro esigenze di consumo. In linea di principio, quindi, la ricchezza in quanto tale non andrebbe mai tassata, in quanto essa è il risultato dell’accumulazione di risparmi che hanno costituito una quota di redditi già a suo tempo tassati.

È bene, a questo punto, ricordare che, in base ai dati forniti da Banca d’Italia, la ricchezza netta totale delle famiglie italiane ammontava a fine 2012 a circa 8.500 mld di euro; la Banca d’Italia stima che la ricchezza delle famiglie italiane sia composta per 5.750 miliardi di euro da attività reali (case, fabbricati, terreni ed impianti); per 3.650 miliardi di euro da attività finanziarie (depositi bancari e postali, titoli, fondi comuni, polizze assicurative); alla somma di queste due componenti della ricchezza vanno sottratte le passività delle famiglie, circa 900 miliardi di euro di debiti (mutui e prestiti al consumo).

Alla fine del 2013, il reddito nazionale (la somma di tutti i redditi prodotti nell’anno in Italia) ammontava a circa 1.600 miliardi, mentre lo stock del debito pubblico raggiungeva circa 2.000 miliardi di euro.

Sintetizzando, gli italiani hanno una ricchezza privata totale pari ad oltre 5 volte il reddito che producono annualmente; un debito pubblico pari ad oltre 1,3 volte il loro reddito annuo. Siamo privatamente ricchi e pubblicamente poveri; la ricchezza accumulata dai privati è (anche) il prodotto storico della pubblica “povertà”.

La gran parte della ricchezza degli italiani è, però, illiquida in quanto costituita principalmente da case prevalentemente destinate ad abitazione principale o secondaria; è una ricchezza che non genera redditi, non produce flussi monetari significativi; vi sono, quindi, pochissimi margini di ulteriore estrazione di entrate fiscali significative. Oggi, questa ricchezza è ancora più illiquida di ieri con prezzi degli immobili in tendenziale discesa ed un mercato bloccato; la confusione generata dal balletto delle tasse sulla casa ha contribuito significativamente all’aumento dell’incertezza ed ha pesato molto negativamente sulla percezione che gli italiani hanno della loro situazione economica e di quella del paese.

La ricchezza degli italiani costituita da attività finanziarie (3.650 miliardi di euro), invece, genera redditi monetari dai quali il fisco può più facilmente estrarre entrate. Vale, però, la pena di ricordare che la maggior parte delle attività finanziarie delle famiglie italiane è costituita da depositi bancari o postali, da titoli di Stato ed obbligazioni bancarie a breve termine che negli ultimi anni hanno dato rendimenti molto contenuti ed, oggi, molto vicini allo zero; il tasso d’interesse pagato dalle banche sui conti correnti è praticamente nullo, il rendimento di aggiudicazione dell’ultima asta dei BOT a 12 mesi è stato dello 0,67%, il rendimento di aggiudicazione dell’ultima asta dei BTP a 3 anni è stato del 1,41% , mentre il rendimento del titolo di Stato tedesco a 10 anni si aggira intorno al 1,6%. Se ipotizziamo che il rendimento medio del complesso delle attività finanziarie possa essere molto ottimisticamente previsto per il 2014 intorno al 2%, ne consegue che il flusso di reddito che gli italiani ricaveranno dalle loro attività finanziarie sarà di circa 73 miliardi di euro (il 2% di 3.650 miliardi). Applicando a questi ipotetici 73 miliardi l’aliquota del 20%, lo Stato godrebbe di entrate fiscali per circa 14,5 miliardi; se l’aliquota passasse dal 20 al 26% le entrate fiscali aumenterebbero da 14,5 a 18,2 miliardi, un aumento inferiore ai 4 miliardi di euro; dall’aumento dell’aliquota dal 20 al 26% per gli strumenti finanziari emessi dai soli emittenti privati, il Governo prevede di incassare 2,6 miliardi l’anno.

Tanto per dare una dimensione ai numeri, le uscite correnti delle Amministrazione Pubbliche (la spesa pubblica), nel 2012, hanno raggiunto i 753 miliardi e la spesa per il pagamento degli interessi sul debito pubblico ha raggiunto 87 miliardi (che vengono incassati principalmente da banche, assicurazioni ed investitori esteri); sul fronte delle entrate fiscali, l’odiata IRAP produce entrate fiscali annue per 34 miliardi di euro, l’imposta sul reddito delle persone fisiche 183 miliardi, l’imposta sul reddito delle società 46 miliardi, l’IVA 110 miliardi mentre le entrate derivanti dal lotto e dagli altri giochi ammontano a quasi 25 miliardi.

In un paese dove hanno inventato l’IRAP, odiata dalle imprese che la pagano sul “valore aggiunto” e non sugli utili tassando di più chi dà occupazione, in un paese dove l’IVA è al 22% e dove l’aliquota marginale più elevata arriva al 43% (a cui vanno a aggiunte le varie “addizionali” regionali e comunali) può essere certamente corretto tassare con aliquote più elevate, anche se con effetti di gettito marginali, i redditi che derivano dall’investimento della ricchezza.

In questo quadro, però, è importante che si rifletta più sul “come” che sul “quanto”. La tassazione, oltre che produrre effetti di gettito, produce anche effetti allocativi; tassando diversamente beni o servizi succedanei (cioè fra loro passibili di sostituzione) si sposta la domanda dal bene o servizio tassato di più a quello tassato in modo più favorevole; raddoppiando l’IVA sulle vetture rosse non si aumenta il gettito, si smette di vendere vetture rosse. L’aumento nel divario di aliquota fra titoli di Stato e titoli privati non farà che aumentare la difficoltà per le imprese nell’accesso al capitale sul mercato, lasciando gli imprenditori sempre di più nelle mani di un sistema bancario con forti connotazioni oligopolistiche (se poi l’aliquota sugli interessi pagati sui conti correnti rimanesse al 20% vi sarebbe un ulteriore effetto di spiazzamento per i titoli emessi dalle imprese a favore dell’intermediazione bancaria). Sarebbe un decisivo passo indietro per la democratizzazione del nostro sistema finanziario ed economico.

Il Governo Monti aumentò l’aliquota di tassazione dal 12,5 al 20% sulle plusvalenze, gli interessi ed i dividendi prodotti da strumenti finanziari emessi da emittenti privati; l’aliquota di tassazione su plusvalenze ed interessi dei titoli di Stato allora rimase invariata al 12,5%; la stessa aliquota più bassa continua ad applicarsi non solo ai titoli di Stato italiani ma anche alle emissioni di tutti gli Stati esteri (quindi, oltre agli Stati europei anche ad emissioni di Stati come gli USA, il Regno Unito, la Svizzera, il Giappone, il Canada, la Norvegia, l’Australia, il Sud-Africa o il Messico) ed alle emissioni di enti sovranazionali come la BEI.

Questa differenza di trattamento fiscale penalizza gli emittenti privati di azioni e di obbligazioni (che generano “redditi” finanziari) a scapito degli emittenti pubblici (che generano “rendite” finanziarie in quanto non soggetti al rischio di impresa); chi finanzia un’azienda privata corre un rischio superiore di chi finanzia lo Stato; chi finanzia un’azienda privata è un investitore, chi detiene titoli di Stato è un rentier. Tassando con aliquote più alte le emissioni private rispetto a quelle pubbliche si svantaggia il sistema produttivo privato nell’accesso al mercato finanziario e si favorisce l’intermediazione dello Stato re-distributore; a parità di condizioni, oggi il risparmiatore italiano viene incentivato a detenere un titolo di Stato americano o norvegese piuttosto che un’obbligazione di una banca o di un’impresa italiana. Siamo sicuri che sussidiare il collocamento di titoli di Stati esteri a spese di un emittente privato nazionale sia il provvedimento giusto?

L’argomento secondo il quale la diversa aliquota dovrebbe essere funzionale a facilitare il collocamento del titoli dello Stato italiano è risibile ed è smentito, nei fatti, da una serie di considerazioni: in primo luogo, l’aliquota più bassa si applica a tutti gli emittenti statali e sovranazionali; in secondo luogo, le famiglie italiane detengono titoli del nostro debito pubblico solo per una piccola frazione (circa il 5%) del totale delle loro attività finanziarie; in ultimo, la parte più rilevante del nostro debito pubblico è detenuta da investitori istituzionali italiani ed esteri sui quali la modifica dell’aliquota dal 12,5 al 20% non peserebbe in alcun modo.

Come considerazione finale, nella misura in cui la norma ha anche un valore pedagogico, Renzi dovrebbe riflettere sulla circostanza che potrebbe essere meglio non iniziare il mandato con un provvedimento che segnala agli italiani che l’orientamento del Governo va nella direzione di privilegiare le rendite, cioè quelle che derivano dal finanziamento dei titoli di Stato (italiano e non), rispetto ai redditi, cioè quelli che derivano dagli investimenti delle famiglie diretti a finanziare sul mercato il sistema produttivo.

L’articolo è stato pubblicato in versione ridotta sul Corriere della Sera di lunedì 24 marzo 2014, dal titolo Risparmio, il boomerang delle nuove tasse, di A. Foà.

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