Bernard Madoff, autore di una delle più grandi truffe finanziarie di sempre, non ha agito da solo. Mentre la magistratura indaga per stabilire se ci siano state altre persone coinvolte nell’attuazione della truffa, bisogna constatare che tale manovra è stata resa possibile soltanto dalla connivenza di tutto un sistema, di controlli che non hanno funzionato e soprattutto di una cultura finanziaria che ha preferito non porsi problemi scomodi a fronte di importanti guadagni nell’immediato.
La società di Madoff ha attirato per decenni diversi miliardi di ricchi investitori, privati e istituzionali, garantendo loro rendimenti annui costanti di circa il 10%. Il meccanismo su cui si reggeva il tutto prende generalmente il nome di ‘schema Ponzi’, dal truffatore che per primo lo attuò negli anni Venti del Novecento, e prevede che i lauti interessi siano pagati attingendo direttamente dal capitale dei nuovi sottoscrittori. Una sorta di catena di Sant’Antonio, che però si mantiene in equilibrio solo finché i capitali in ingresso superano l’ammontare dei rimborsi e del pagamento degli interessi. Quando nell’autunno 2008 scoppia il panico sui mercati finanziari, in seguito al fallimento della banca d’affari Lehman Brothers, gran parte dei clienti di Madoff chiede il rimborso dei propri capitali provocando così la rottura del precario equilibrio su cui si reggeva la truffa. L’11 dicembre 2008 Madoff viene incriminato per frode e le perdite dei clienti vengono stimate nell’ordine delle decine di miliardi.
L’occasione del quinto anniversario della scoperta della truffa ha portato un giornalista del Wall Street Journal a intervistare in carcere Bernard Madoff. Dall’intervista emergono una serie di criticità, più o meno nascoste, che hanno permesso il protrarsi della truffa per decenni. Molta della capacità di Madoff di attirare ingenti capitali, anche da investitori istituzionali e molto benestanti (sicuramente non particolarmente sprovveduti), era proprio dovuto al fatto che questi fosse perfettamente inserito nel sistema e godeva di grande credibilità. In virtù di questa credibilità da parte di tutti gli operatori Madoff racconta come non ci sia mai stato un controllo delle autorità sui conti bancari della sua azienda; dal controllo sarebbe emerso immediatamente che il capitale detenuto in banca era di molto inferiore a quanto dichiarato. Le banche stesse avevano visibilità sulle sue operazioni ma non ci fu nessuna segnalazione alle autorità. L’aspetto più preoccupante della testimonianza di Madoff riguarda l’atteggiamento della clientela di fronte ai suoi risultati eccezionali e in proposito racconta: “le persone mi chiedevano continuamente come facessi. E io rifiutavo di dirglielo, e loro continuavano ad investire”. Era tutto troppo bello per essere vero, ma c’è stata convenienza di tutti gli attori coinvolti a chiudere uno o tutti e due gli occhi e soprattutto a evitare di farsi domande scomode.
La vicenda ha avuto un grande clamore mediatico, dovuto soprattutto al fatto che i clienti truffati appartenevano all’élite finanziaria, e si è conclusa con un processo che nel 2009 ha condannato Madoff a 150 anni di reclusione. Al processo è seguita la confisca dei beni ed è iniziato un percorso di risarcimento delle vittime ridistribuendo i guadagni ottenuti invece da quei clienti usciti prima del crack. Tutto è bene quel che finisce bene. Falso.
Sarebbe sbagliato pensare che l’oltre un secolo di reclusione di Madoff possa lavare le coscienze di tutti. La più grande truffa finanziaria della storia potrà considerarsi superata soltanto se avrà un ritorno in termini di cultura finanziaria, perché Madoff non è l’unico colpevole: lo sono anche il non esigere trasparenza, il non farsi e fare domande, l’accontentarsi di vedere rendimenti, il fidarsi ‘perché si fidavano tutti’.
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