“Imprese: -31mila tra gennaio e marzo, saldo peggiore dal 2004”. Così intitolava l’ultimo comunicato stampa di Unioncamere, l’Unione italiana delle camere di commercio. La crisi economico-finanziaria è la diretta colpevole di tante chiusure ma ci sono altri elementi, che influiscono sull’attività imprenditoriale. Ciononostante gli imprenditori trovano nuovi modi per reinventarsi.
Se è vero che i dati del primo trimestre 2013 (saldo netto: -31 mila imprese) sono persino peggiori di quelli “dell’annus horribilis”, il 2009, dovremo aspettare i risultati di fine anno prima di poter annunciare una vera e propria crisi dell’imprenditoria italiana. Con questo non vogliamo dire che gli interventi non siano necessari o che la gravità della crisi non si faccia sentire in Italia come in Europa ma solamente che dobbiamo tenere conto molteplici elementi. Nel corso degli ultimi otto anni ad esempio, i primi trimestri sono stati particolarmente severi in termini di cessazioni di attività mentre il saldo di fine anno è risultato sempre positivo, anche nel 2009. Azzardando una proiezione, anche il 2013 dovrebbe chiudersi con più aperture che chiusure.
Il dato più interessante dell’analisi è quello che riguarda le forme giuridiche delle imprese: le imprese individuali, da sole, determinano una perdita netta di 38.261 unità, superiore all’intero saldo negativo che viene solo parzialmente compensato dal saldo positivo delle società di capitale ed imprese cooperative. Tra società di persone e ditte individuali, quella che è considerata la parte più fragile del tessuto imprenditoriale italiano ha quindi perso complessivamente 41.565 unità.
Dato impressionante, ma teniamo presente che queste cifre includono i risultati, per quanto scarni, della Riforma Fornero (Legge n. 92 del 28 Giugno 2012) atta a smascherare il ricorso illegittimo alla partita IVA per prestazioni di lavoro subordinato. Gli effetti più cospicui sulle oltre 400mila false partite iva ce li aspettiamo a inizio 2014 quando i contributi per i titolari di partita iva aumenteranno dal 27% al 33%.
Nel corso degli ultimi anni la crisi si è aggravata passando dalla mondo della finanza a quello dell’economia reale, influenzando in modo sempre più importante le decisioni di aziende e famiglie. In questi giorni l’OCSE e la Banca Centrale Europea stanno insistendo sull’importanza del credito alle piccole e medie imprese (PMI) per rilanciare le economie dei paesi in difficoltà, favorendo quindi un allontanamento dalle politiche di austerità degli ultimi anni. Nonostante l’Italia parta svantaggiata, ci classifichiamo tra le ultime nazioni al mondo per facilità di accesso al credito, abbiamo una burocratizzazione troppo complessa e una delle pressioni fiscali più alte al mondo per il nostro apparato produttivo, siamo riusciti a controbilanciare il numero di cessazioni creando nuove aziende attraverso l’adattamento e l’innovazione.
Innovazione che, in un contesto di schumpeteriana “distruzione creativa” – quel processo di selezione per cui molte aziende spariscono, altre nascono ed altre si rafforzano – è forse la sola strada per sopravvivere in un mondo in costante, e sempre più rapida, evoluzione. La crisi di processo richiede infatti uno sforzo non indifferente da parte degli imprenditori. Quelli che sono stati, sono e saranno in grado di anticipare i bisogni di mercato o di reinventarsi saranno in grado di sopravvivere offrendo servizi migliori anche più vicini alle esigenze dei consumatori.