I redditi sono fermi, la disoccupazione sempre più elevata e la disuguaglianza ha raggiunto livelli preoccupanti. Di questo scenario di profondo disagio economico e, prima ancora, sociale, in molti identificano uno dei principali responsabili nella moneta unica e una conseguente soluzione: uscire dall’euro. Nella retorica sempre più frequente, questa strada dovrebbe portare a una ritrovata sovranità monetaria, non più succube della Germania, e a una rinascita dell’economia nazionale grazie alla possibilità di effettuare svalutazioni competitive.
Ecco perché uscire dall’euro comporterebbe invece dei benefici molto dubbi a fronte di costi certi, per ognuno di noi, estremamente elevati.
- La svalutazione darebbe grande beneficio all’industria nazionale rendendola più competitiva. Falso. I beni esportati diventerebbero relativamente meno cari (più competitivi) di quelli esteri ma i beni importati diventerebbero più costosi. In Italia, dove importiamo la stragrande maggioranza dell’energia che utilizziamo (la bilancia commerciale energetica negli scorsi anni è stata attorno a -60 miliardi di euro), una svalutazione si trasformerebbe facilmente in un aumento dei costi di produzione trasferiti poi sui consumatori. Tale politica potrebbe avere senso se si volesse favorire il settore legato alle esportazioni, a discapito di chi è più dipendente dai beni importati, ma non sembra che il mercato dell’export italiano sia tra le principali vittime della crisi, anzi. Il recente Rapporto sulla competitività dei settori produttivi redatto da ISTAT evidenzia che negli ultimi tre anni si è assistito a una divaricazione tra mercato domestico depresso e mercati esteri tendenzialmente in crescita, da cui è conseguito un generalizzato incremento della propensione all’export, ossia la quota di fatturato esportato su quello totale.
- Uscire dall’euro renderebbe più facile pagare il debito pubblico. Falso. Il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo, che secondo le ultime proiezioni dovrebbe superare il 135% nel 2014, costituisce un fattore che limita molto la possibilità per lo Stato di utilizzare efficacemente la politica fiscale. In caso di uscita dall’euro, nella migliore delle ipotesi, tale rapporto potrebbe restare immutato se tutto il debito venisse convertito in lire. È difficile tuttavia immaginare quale investitore, estero ma anche domestico, sia disposto ad accettare che il proprio credito venga convertito in una valuta strutturalmente più debole, e destinata a deprezzarsi. Si aprono quindi due scenari: se il debito, o parte di questo, rimane denominato in euro, ci troveremo a pagare con una lira debole un debito e degli interessi denominati in valuta forte, aumentando ancora di più il peso della spesa per interessi e facendo impennare il rapporto debito/PIL. L’insostenibilità economica di questa situazione suggerisce come l’ipotesi più probabile potrebbe essere quella di un default sul debito pubblico, con un forte impatto, sia diretto sui detentori dei titoli, sia indiretto in termini di successivo accesso ai mercati.
- Una banca centrale nazionale potrebbe monetizzare il debito, ossia stampare moneta per sostenere l’acquisto di titoli del debito pubblico, senza più dipendere dai mercati. Teoricamente potrebbe, ma vorrebbe dire tornare a una situazione anteriore al 1981, prima del divorzio tra la Banca d’Italia e il Tesoro. In quegli anni la banca centrale rinunciava alla sua autonomia e credibilità per fare da compratore di ultima istanza dei titoli dello Stato. Si assistette a una crescita dello stock di debito, mitigato dall’elevata inflazione, che arrivò a toccare il 21% nel 1980. Il risultato oggi di questo salto indietro di oltre trent’anni sarebbe una spesa incontrollata e una spirale di svalutazione e inflazione, da cui si uscì con grandi sforzi.
- Il ritorno alla lira sarebbe indolore. Falso. In caso di decisione di uscita dall’euro qualsiasi italiano dovrebbe razionalmente investire la propria ricchezza, in attività denominate in valuta estera. Si avrebbe quindi una violenta fuga di capitali che vedrebbe il deflusso della ricchezza dei cittadini dal nostro paese verso qualsiasi altra valuta meno a rischio di deprezzamento. In Italia, dove la ricchezza dei cittadini potrebbe essere uno dei motori della crescita, questo potrebbe avere effetti devastanti. Per sostenere il progetto bisognerebbe immaginare un blocco dei capitali che costringa i risparmiatori italiani a investire solo in titoli denominati in lire. Uno scenario forse conveniente per lo Stato, di sicuro non per chi investe.
- Un ritorno dell’inflazione non può fare che bene. Falso. L’attuale livello di inflazione è estremamente basso ed è auspicabile che ci sia un leggero aumento, tuttavia le svalutazioni potrebbero facilmente riportare il tasso di inflazione a livelli che non si vedevano da prima della firma del trattato di Maastricht nel 1992. L’aumento dell’inflazione ha importanti effetti redistributivi, trasferendo ricchezza dai creditori ai debitori. L’inflazione rappresenta, infatti, una tassa occulta sui risparmiatori che la pagano ogni anno con una quota dei propri risparmi. Nel caso in cui la banca centrale cercasse di contenerla aumentando i tassi di interesse questo provocherebbe un aumento del costo del denaro e quindi dei mutui e dei prestiti.
Il processo di integrazione europea è ancora in divenire e lontano dall’essere perfetto. L’introduzione dell’euro è stata per il momento un’occasione mancata, perché, a fronte della riduzione del costo del debito, la politica ha risposto aumentando la spesa pubblica anzi che approfittare per riformarla. Oggi l’euro è il facile capro espiatorio di una situazione difficile ed è accomunato a un’istituzione, l’Europa, sentita lontana e ostile. L’idea che l’Italia possa tornare a crescere semplicemente uscendo dall’euro è però un’illusione che serve soprattutto a colmare un vuoto politico e prescinde dagli enormi costi economici e sociali che questo comporterebbe.